Nei giorni scorsi son tornato a rileggere un libro interessante quanto coinvolgente ed in quanto tale conservato tra quelli prediletti. Si tratta di “Vita attraverso le lettere” curato da Giuseppe Fiori ed edito da Einaudi nel 1994 che raccoglie una selezione di 261 lettere scritte dal comunista Antonio Gramsci, quel cervellone che “non avrebbe dovuto funzionare per vent’anni”, chè tale era il desiderio dei fascisti. Ha scritto Eric Hobsbawm: “ l’elenco degli autori di tutto il mondo le cui opere sono più frequentemente citate nella letteratura internazionale di arte e umanità contiene pochi nomi di italiani, di cui soltanto cinque nati dopo il XVI secolo. In questo elenco non è compreso, per esempio, né Vico e né Machiavelli mentre è invece citato Antonimo Gramsci”. Così è se vi pare! Nel libro del Fiori sono contenute non solo le lettere più conosciute, scritte in carcere (1926 – 1937), ma anche quelle che vanno dal 1908 al 1926. “Un autentico autoritratto – scrive Diego Sergio Anzà – (quasi un romanzo) che ci rende partecipi di un percorso straordinario”. Sono le lettere alla madre, alle sorelle, ai fratelli nel periodo della sua formazione politica e culturale a Torino, dove era emigrato dalla natia Ales (Cagliari), fino a quelle degli anni più intensi e più drammatici scritte alla moglie Julka Schucht, ai figli Delio e Giuliano, alla cognata Tania, all’amico Piero Sraffa, ai compagni di partito, lettere che gli rendono amara l’esistenza perché spesso tramite queste interviene sui problemi del movimento comunista internazionale, esprimendo idee e posizioni che spesso contrastano duramente con quelle ufficiali di chi il movimento dirige. In una lettera del 19 maggio del 1930 scrive tra l’altro: “Potevo preventivare i colpi degli avversari che combattevo, non potevo prevedere che i colpi mi sarebbero giunti anche da altre parti da dove meno potevo sopportarli. Io sono stato condannato dal tribunale speciale […] ma chi mi ha condannato è un organismo molto più vasto, di cui il tribunale speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale di chi ha compilato l’atto legale di condanna”. Non è stato il partito fascista il suo solo “condannatore”. Bene, siamo davanti ad un epistolario che, scrive Anzà, “al di là dell’ormai universalmente acquisito monumento umano e letterario, è una via percorsa da segni alati e metatemporali. Una cima da esplorare con coraggio e fatica oltre la quale ci è regalato cogliere orizzonti senza nebbie. Perché quella vetta affonda le sue radici nell’antico mare che ha bagnato e ripulito buona parte delle stratificazioni esistenziali e culturali dell’umanità”. È il mare della Magna Graecia. E sta qui la “notizia” che ci dona il Fiori, la notizia di un Gramsci “calabrese”. Già, perché il trisavolo don Gennaro Gramsci, il bisnonno don Nicola del 1769 e il nonno don Gennaro del 1810, sono nati a Plataci, centro arberesh della provincia di Cosenza.Uno dei figli di don Gennaro, Franscesco, si è trasferito poi in Sardegna per dirigere l’Ufficio del Registro a Ghirlanza prima e ad Ales poi. Qui ha sposato Peppina Marcias che ha avuto sette figli, dei quali Antonio era il quarto. Insomma un Gramsci magnogreco, “un abisso cromosomico che perpetuamente ritorna alla luce, un architrave che continua a sostenere le nostre vite, soprattutto le più grandi come quella del pensatore sardo” e calabro, un pensatore molto contrastato anche tra fides et ratio. “L’ho invitato molte volte con delicatezza a ricevere i sacramenti. Mi rispondeva sempre: ‘ non è che non voglio, non posso’”. È questa la testimonianza data dal cappellano della clinica romana “Quisisana” al quale il grande comunista calabro – sardo confidava le sue preoccupazioni negli ultimi mesi della sua vita. Si può leggere, a riguardo, un ampio servizio di Andrea Tornelli su il Giornale del 27 novembre del 2008, corredato da due interviste a Giorgio Galli e Giuseppe Vacca. Secondo quanto scritto dal Tornelli, mons. Giuseppe Furrer, dal 1935 al 1938 cappellano della clinica, una volta alla settimana faceva visita a Gramsci, restando “con lui molto a lungo”. E non solo, il Comunista, “rivelava una conoscenza marcata dei Padri della Chiesa, specialmente Agostino e Tommaso e conosceva molto bene le opere di Rosmini”. Ed ancora, il sacerdote lo invitava “Molte volte con delicatezza a ricevere i sacramenti, ma mi rispondeva sempre, ‘non è che non voglio non posso’ e “certamente non lo diceva per i suoi mali fisici”. In punto di morte il cappellano Furrer accorse per dare l’ultimo conforto della Fede al moribondo, ma solo la presenza della cognata Tatiana Schucht contrariata impedì che gli fosse amministrata l’estrema unzione. E comunque nei giorni immediatamente precedenti alla morte, Gramsci sentiva il bisogno di avvicinarsi a Dio. Avvenne, infatti, che a Suor Angelina Zucher, accorsa al capezzale, disse: “Madre preghi per me, perché sento di essere alla fine”, aggiungendo subito dopo, “Madre, mi aiuti lei a pregare, mi sento proprio sfinito”. Le testimonianze e le dichiarazioni sugli ultimi giorni della tormentata vita di Antonio Gramsci continuano sul giornale, fonte di questa nota, ed anche in altre pubblicazioni, ma io mi fermo qui per dare al lettore il sapore della scoperta invitandolo a leggere e a riflettere. La conversione alla fede cristiana del fondatore de l’Unità sarà avvenuta davvero? La storia e la storiografia continuano il loro lavoro. Ai posteri?! Ma forse è meglio dire che solo Lui sa!