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Palazzo San Giorgio e informazione non allineata: la vendetta (benvenuta) è servita

Precisiamolo subito, a scanso di qualsiasi interessato equivoco: l'Amministrazione Comunale di Reggio Calabria ci ha reso un favore non di poco conto. La decisione di escludere questa testata giornalistica dalla mailing list utilizzata per l'invio di comunicati ci toglie dall'imbarazzo di pubblicare "non notizie" che nulla apportavano in termini di informazione ai nostri lettori. E pur tuttavia, sebbene sia doveroso lasciare fuori dalla porta l'immondo vittimismo di cui tanti si cibano, resta la gravità di una scelta che poco ha a che vedere con la discrezionalità, tenuto conto che l'imparzialità di un ente istituzionale e la sua capacità di incassare critiche, anche pesanti se del caso, dovrebbero essere date per acquisite. L'ipotesi che si tratti di un casuale malinteso, magari addebitabile ad una antipatica, quanto improvvisa, dimenticanza o ad imprecisati motivi tecnici, in questo caso non è contemplata. Non lo è perché la coincidenza ha voluto che l'interruzione, salvo un paio di insignificanti eccezioni, si concretizzasse immediatamente dopo aver scritto un commento, duro ma legittimo, sulle modalità di gestione della comunicazione da parte di Palazzo San Giorgio (qui il link all'articolo in questione). Vicende politiche interne alla vita di un partito di opposizione se oggetto di volgare derisione da parte di un consigliere comunale della maggioranza, sfruttando la longa manus dell'ufficio stampa comunale, come scritto nell'occasione, rimane, a nostro insindacabile giudizio, una imperdonabile caduta di stile, sul piano formale ed anche sostanziale. Nei corridoi del Municipio qualcuno potrebbe ben obiettare che, quando questo giornale è nato, ha chiesto di essere inserito nell'indirizzario ufficiale così da ricevere le relative comunicazioni: vero, verissimo, come scontato ed ovvio che fosse. Lo abbiamo fatto con tutti gli altri enti perché così ci si comporta quando  si è mossi dall'ambizione di voler fornire ogni giorno un quadro il più completo possibile di quel che accade nel territorio di riferimento, nel nostro caso quello calabrese. Un rapporto, invero, tormentato dall'inizio a causa di problemi "tecnici" che, tuttavia, l'impegno e la disponibilità mostrati dalla responsabile avevano risolto brillantemente. Tutto vanificato dalla solerzia vendicativa che ha animato colui che si è abbassato oltre la soglia minima di rispetto per sé stesso cassando un giornale dall'elenco di quelli graditi. Peccato per lui, peccato per loro, soprattutto per quei rappresentanti della maggioranza consiliare, pochi ma esistenti, e di quei componenti della Giunta, pochissimi ma vivi e vegeti, che meritano considerazione. Se questa scelta, che ci inorgoglisce forse oltre misura, fosse addebitabile al massimo livello politico, sarebbe la miglior risposta a quello sparuto drappello di difensori della sedicente "Svolta", ormai ridottisi talmente tanto da suscitare negli interlocutori un sentimento di sana invidia per essere rimasti romanticamente affezionati a qualcosa che si è evaporato in un arco temporale brevissimo. Se, invece, essa fosse ascrivibile ad una libera interpretazione dei materiali autori delle note stampa, ci troveremmo di fronte ad un raro esempio di arroganza che merita soltanto di essere circondata da una vacuo sentimento di disprezzo. Poco male, faremo volentieri a meno di qualche potenziale condivisione sui social network: è il prezzo, in saldo, dell'incapacità, esibita quotidianamente, dalla pubblicistica di regime che non possiede nemmeno gli elementi basilari per distinguere tra propaganda e corretta comunicazione alla cittadinanza. Basterebbe, a questo proposito, dare una veloce occhiata al fascio di notizie che appaiono sulla homepage del sito del Comune di Reggio Calabria: tra ordinanze, disservizi ed orari della Pinacoteca, una manina poco "educata" ha pensato bene di infilare, in data 22 dicembre, le presunte "Dieci buone notizie per la città": un elenco, promozionale ed autoreferenziale, di "fatti concreti" su cui una fetta maggioritaria della popolazione avrebbe ben più di qualcosa da eccepire proponendo una contro-lista delle "Cento cattive notizie per la città". 

La 'ndrangheta spaventa anche lo sport e i Palazzi si nascondono dietro la "solidarietà"

Se non ci fosse da piangere per la drammaticità dei fatti, potremmo solo ridere, anche in questo caso fino alle lacrime, davanti alle esilaranti reazioni provenienti dal mondo dello sport e delle istituzioni che, in modo compatto, hanno ritenuto di dover solidarizzare con l'Asd Sporting Locri. La vicenda è nota: il presidente del club che milita del campionato di Serie A di calcio a 5, Ferdinando Armeni, ha deciso di fare un passo indietro di fronte allo stillicidio di intimidazioni e minacce indirizzate a lui stesso, alla sua famiglia e ad altri dirigenti del sodalizio ionico. La sua fermezza nel mantenere inalterata la scelta, clamorosa quanto umanamente necessaria, è ancor più significativa di fronte al profluvio di retorica che in queste ore ha circondato il caso. Ha parlato il numero dello sport italiano, Giovanni Malagò, lo ha fatto anche il presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio, esponenti politici vari, a partire dal presidente della Regione Mario Oliverio. E' davvero imbarazzante immaginare che, di fronte al terrore prodotto dalla feccia chiamata 'ndrangheta, spadroneggiante senza rivali nella Locride, ci sia qualcuno disposto ancora a credere alla bontà salvifica di una metaforica pacca sulle spalle. Il responsabile dello Sporting Locri, esauriti i debiti ringraziamenti, con lo spiccio pragmatismo di cui da quelle parti bisogna armarsi per sopravvivere, non solo non recede dalla sua intenzione, ma conferma di volersi liberare gratuitamente della gestione di quello che ormai è diventato un peso difficile da sopportare. "Locri deve giocare. Il 10 gennaio - ha detto con un a pari all'ingenua incoscienza Malagò - voglio vedere le ragazze in campo. Lo sport italiano è al fianco della società e delle atlete che non devono assolutamente cedere a questi vergognosi gesti". "Porteremo a Locri - gli ha fatto eco l'ineffabile Tavecchio - le azzurre del calcio a cinque per testimoniare la nostra solidarietà. Il calcio italiano è unito contro la violenza e contro la vergogna di chi attraverso la minaccia non vuole si faccia sport. Esprimo massima solidarietà allo Sporting Locri, la Figc è al loro fianco. Andremo in Calabria con la Nazionale femminile di Calcio a 5 per testimoniare tutto il nostro sostegno affinché nel meridione d’Italia non si spenga una bella realtà di sport in rosa". "Solidarietà", una parola ripetuta più volte, quasi avesse una debolezza intrinseca che per essere nascosta deve essere reiterata. E' questo l'aspetto che rende tutto surreale: da una parte la carne viva della paura bruciata nel fuoco sempre acceso della bestialità criminale, dall'altra gli alieni sbarcati dal pianeta delle banalità, pericolosissime perché rappresentano l'istantanea della mancanza di comprensione del fenomeno e della lontananza siderale, culturale prima di tutto, nei confronti di questa ampia porzione del territorio. Vivono un mondo che non capiscono, un mondo che non vogliono capire perché la realtà è tremenda ed allora è di gran lunga più comodo immergersi nell'acqua sacra dell'ovvio. Senza vergogna, senza arrossire, un paio di parole di circostanza obbligate vista l'occasione, ma nulla che lasci intuire un'impercettibile cambiamento di prospettiva nell'interpretazione degli eventi. "Andate avanti con coraggio, non siete soli. Le intimidazioni non possono bloccare la crescita ed il vivere civile", è, per esempio, quello che sono riusciti a mettere in bocca ad Oliverio: meglio, molto meglio, sarebbe stato tacere. Si sarebbe evitato di sfondare la porta del ridicolo. Proseguire imperterriti, fingendo che un giorno la 'ndrangheta scomparirà per mano divina, dovrebbe essere considerato un reato, anche fra i più gravi. Ne è consapevole Claudio Sammartino, Prefetto di Reggio Calabria, che ha ordinato "adeguate misure di protezione" per i dirigenti e la convocazione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica: interverranno anche  i protagonisti, loro malgrado, della vicenda- Lo si capisca una volta per tutte: è una guerra, vera, di quelle che si combattono con le armi, con gli eserciti. Negarlo, o celarlo sotto l'ombrello protettivo e fasullo della "solidarietà", è una colpa storica da cui tessuto sociale e classe dirigente  insieme hanno l'obbligo di liberarsi, pena la capitolazione definitiva.

Giornali e toghe: la brutta storia del prete calabrese specchio di un cortocircuito

E' una turpe vicenda, comunque la si pensi e per le ragioni più diverse, quella di cui da poco più di una settimana è protagonista un sacerdote della Piana di Gioia Tauro. Del religioso si parla da giorni, lo hanno fatto in tanti, qualcuno anche a sproposito, perché al centro di una presunta brutta storia di sesso con ragazzini, prostituzione minorile, rapporti omosessuali a pagamento. Insomma, un procedimento penale con tutti gli ingredienti per far scattare, istintivamente, un moto di profondissima indignazione in chiunque sia venuto a conoscenza dei particolari di questa indagine.Quel che è successo dopo, però, desta più di una perplessità. In particolare, a convincere poco sono le decisioni, contraddittorie ed apparentemente illogiche dei magistrati fino al momento imbattutisi nel caso. Si tratta, infatti, di capire cosa sia vero di ciò che ci è stato raccontato all'inizio, con dovizia di dettagli, anche pruriginosi ed inutili ai fini di una corretta e completa informazione, e quanto sia rimasto dell'impostazione originaria concepita dagli organi inquirenti.  Inutile girare, con delicata diplomazia, attorno al nocciolo della questione: il 18 dicembre al sacerdote vengono strette le manette ai polsi e, sotto il peso gravoso di accuse pesantissime, viene accompagnato dietro le sbarre. Tre giorni più tardi, sette ore di interrogatorio sono sufficienti per permettere al magistrato competente di decidere, 24 ore dopo, di concedergli il beneficio dei domiciliari. A prescindere dal quadro indiziario alla base del mandato d'arresto, illustratoci in modo circostanziato dagli investigatori, colpisce un elemento essenziale: i reati addebitati al prete sarebbero stati commessi sfruttando il cellulare ed il personal computer, due strumenti il cui utilizzo, con la detenzione domiciliare, non gli è precluso.  Dunque, dove si è inceppata la macchina logica del buonsenso? Un affievolimento delle esigenze cautelari non è facilmente rintracciabile, alla luce della possibile reiterazione del reato che, come noto, costituisce uno degli elementi alla base della reclusione in carcere. Indipendentemente dal contenuto delle risposte e delle spiegazioni fornite in sede d'interrogatorio, è mai possibile che in un arco temporale così breve siano venute meno le ragioni alla base del provvedimento restrittivo che ne aveva disposto la carcerazione? Più di qualcosa non torna e, legittimamente, l'opinione pubblica rimane spiazzata assistendo al saliscendi delle montagne russe della giustizia italiana. In linea puramente teorica ed astratta in quanto non appare opportuno entrare nel merito del caso specifico, siamo ancorati  ad una biforcazione del pensiero che non prevede il percorso di terze vie: o prima è stato esageratamente gonfiato il contenuto dell'ordinanza sfociata nella sua cattura, e sarebbe imperdonabile, o dopo gli  è stato riservato, ingiustificatamente, un trattamento di favore. Non che la conduzione lineare dell'attività investigativo-giudiziaria rappresenti un problema sorto nell'ultima settimana, beninteso. Basti pensare al rapporto-scontro, perverso, tra politica e giustizia che accompagna il corso degli eventi italiani ormai da quasi un quarto di secolo. Sono trascorsi, infatti, circa 24 anni da quando la furia violenta di "Tangentopoli" sconquassò lo scenario che per decenni aveva favorito, piaccia o no, benessere e sviluppo in Italia. Nelle forme più diverse, esito delle alchimie tipiche della Prima Repubblica, la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista, il Partito Liberale, il Partito Repubblicano ed il Partito Socialdemocratico avevano garantito la solidità del sistema. Di quel delicatissimo equilibrio fra poteri, anche differenti da quello propriamente politico, nulla rimase davanti alla cieca violenza di quella sedicente rivoluzione giudiziaria. L'ubriacatura di massa, causata dall'irresponsabilità di magistrati, panorama informativo e forze politiche che da quel blocco erano rimaste escluse, produsse un conformista ed acritico pensiero unico al quale in pochi, pochissimi, ebbero il coraggio di opporsi. L'opinione pubblica era assoggettata ad un impazzimento simile a quello che muove le vigliacche azioni di chi si agita per entrare in guerre senza vie d'uscita, per approssimazione, impreparazione, superficialità di giudizio. Cosa sia rimasto di quella ventata giustizialista è ciò che siamo costretti ad avere sotto gli occhi tutti i giorni: le seconde, le terze e le quarte file della platea di clientes di un tempo che, liberatisi i posti più appetibili, si sono lanciati famelici sulle misere spoglie rimaste. Le macerie di allora sono state così gigantesche che la polvere ancora adesso impedisce di cogliere dettagli e sfumature di quel che successe allora. Avvisi di garanzia trasformati, nell'immaginario collettivo, in arresti; arresti che, per l'inciviltà di toghe e penne assetate di sangue, hanno assunto le sembianze di condanne. Può sembrare mera speculazione teorica o un nostalgico ricordo di tempi orma andati, ma il veleno inoculato allora nel corpo fragile della democrazia italiana scorre ancora. Il giustizialismo d'accatto, confortato dal protagonismo di una parte consistente della casta dei magistrati e dalla prezzolata demagogia dello sconquassato tessuto giornalistico, guida le forche agitate dai puri che, è sufficiente cambiare inquadratura, per osservarli in tutta la loro sporcizia morale. Silvio Berlusconi, maggior beneficiario di quel vuoto prodotto dal "Colpo di Stato" meglio noto come "Tangentopoli", all'origine del suo progetto era animato dal desiderio, oltre che dalla necessità, di dare una casa ai milioni di orfani del pentapartito. In seguito, ma questa è ancora cronaca e non ancora storia da osservare con freddo distacco, sappiamo bene quale sia stata la sua parabola. Contestualmente, i compagni di viaggio dell'ex Cavaliere, Umberto Bossi e Gianfranco Fini, null'altro hanno fatto, se non sistemarsi sotto l'albero colmo di frutti e raccogliere tutto quel che cadeva, senza nessun merito, senza nessuno sforzo, come ebbe a dire il mai troppo rimpianto Indro Montanelli. Sui temi della giustizia, tuttavia, i tre hanno solleticato, in modo diverso, gli istinti più beceri del popolo: da una parte il garantismo ad personam coltivato dall'imputato B., dall'altra la demagogia di chi ha "sventolato" cappi in Aula e prima ancora aveva ancora rivendicato con orgoglio il lancio di monetine contro Bettino Craxi davanti all'hotel Raphael. Non condividere l'idea che nel 2015 la situazione sia ulteriormente peggiorata è il sigillo alla malafede: sotto questo punto di vista le colpe abnormi di certa stampa sono devastanti, quasi pari a quelle dei "sacerdoti della giustizia". Un infinito, ininterrotto "dagli all'untore", se potente ed in vista ancora meglio. Provare a contrastare questa deriva è simile al tentativo di voler fermare il vento con le mani, ma poco importa perché la barbarie, anche per vicende delicatissime sul piano personale, di additare al pubblico ludibrio e tagliare teste in simboliche impiccagioni di piazza, è da criminali, senza se e senza ma. Quando poi l'obiettivo del linciaggio riveste cariche pubbliche o indossa una tonaca da prete, la schiuma di rabbia esce ancora più copiosa dagli angoli della bocca. In fondo, a chi importa se agendo in siffatto modo si ottiene un unico risultato: la morte del vivere civile. In Calabria e nel resto di quel mondo che vorrebbe inchinarsi solo alla autentica Giustizia ed alla autentica Verità combattere per una causa persa, o almeno mettersi di traverso, è scomodo, ma ne vale la pena: soprattutto quando anche soggetti che vantano un recente passato, a loro dire, "garantista", s'inchinano alle più bieche e squallide voglie vendicative. Tutelare la presunzione d'innocenza, a maggior ragione in una terra infestata (anche) dalla 'ndrangheta dovrebbe essere un faro capace di illuminare le menti, ma è diventata niente più che un inutile orpello da nascondere per non rischiare di essere confusi con i lupi voraci delle altrui debolezze. 

Indagine Sole 24 Ore: la politica reggina taccia e si nasconda

No, non ci hanno risparmiato neppure le loro patetiche recriminazioni condite da arrampicate sugli specchi che regalano su un piatto d'argento, come poche altre certificazioni, il sigillo della loro inconsistenza. Sono i politici reggini che, spiazzati dalla pubblicazione dei risultati dell'annuale indagine del "Sole 24 Ore", quadro completo sulla "Qualità della vita" nelle varie province italiane, non hanno sentito nemmeno l'obbligo, morale prima di tutto, di reagire nell'unico modo possibile: nascondersi e tacere! Pur ricoprendo incarichi istituzionali ai massimi vertici, come se la faccenda non li riguardasse direttamente e colpevolmente, hanno snocciolato il trito e ritrito rosario di responsabilità storiche e di quanto bene ha arrecato finalmente la loro preziosissima opera al servizio della collettività. Un lavoro indefesso e geniale finalizzato proprio a far risalire la china ad una landa disperata. Senza vergogna hanno azzardato analisi sociologiche, pregni della loro crassa ignoranza e della sicurezza derivante dal consenso, mal riposto, ricevuto. Giustificarsi con l'argomento dell'atavica un'arretratezza che coinvolge da oltre un secolo l'intero Sud dovrebbe, se solo fossero animati da amor proprio, indurli a farsi da parte per manifesta incapacità.  Perché delle due l'una: o sono in grado di amministrare una comunità, sia essa una città o una provincia, con un piglio ed un'intelligenza tali da permettere un miglioramento della vita quotidiana dei cittadini o, in assenza di questo prerequisito, devono limitarsi a prendere atto della loro inutilità, o peggio, dei danni che arrecano. Un allontanamento volontario che, possibilmente, sia accompagnato dalle scuse dovute per i guai procurati. Personaggi che, mossi solo da una sfrenata ambizione personale e dall'ansia di recintare i propri rispettivi orticelli maleodoranti, non hanno dimostrato di saper contribuire alla indispensabile inversione di rotta, hanno solo questo bivio davanti agli occhi. Al contrario, con ineguagliabile coraggio, hanno l'ardire di sostenere, di fronte agli inoppugnabili dati presenti nel report del Sole 24 Ore, rivendicazioni nei confronti dei governi passati, presenti e, chissà, magari anche quelli futuri, tutti indistintamente e deliberatamente mossi da un'unica ragione esistenziale: tenere sotto scacco Reggio Calabria. Da lì alla formulazione della cantilena dell'elenco che comprende le infinite risorse "meravigliose", ma inespresse, di quest'area, è un attimo. Così come crogiolarsi nella convinzione che, in fondo, da tempo, la classifica in questione relega l'area dello Stretto nelle retrovie. Cosa volete che importi se Reggio Calabria è fra le ultime dieci, venti o trenta o, come quest'anno, umiliata, in fondo alla graduatoria? No, non hanno nemmeno un briciolo di orgoglio, ma non disperiamo: dal prossimo anno a far ridere l'Italia provevderà la "Città Metropolitana" che, addirittura, già in questi mesi, è riuscita a piazzare qualche mastello della differenziata qua e là e, addirittura, udite udite, ad aprire un asilo comunale!

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