In molti, chi sa perché, si sono illusi che il coronavirus avrebbe restituito un’umanità migliore.
La verità, invece, è che l’emergenza ha amplificato vizi e virtù di ciascuno.
La cattività, l’angoscia, l’incertezza nel domani non ci hanno reso migliori né peggiori: piuttosto hanno restituito la fotografia di ciò che ognuno di noi realmente è.
Prova ne sono le profonde linee di demarcazione che hanno tratteggiato il confine tra due modi d’intendere ed esercitare le professioni sanitarie.
L’epidemia ha, infatti, contribuito a delineare due ambiti d’appartenenza, presenti da sempre, ma amplificati dal covid.
Da una parte (la stragrande maggioranza), medici, infermieri, operatori sanitari che si sono buttati a capofitto nel girone dantesco della pandemia e per settimane hanno lavorato pancia a terra, a volte, fino alle conseguenze più estreme.
Uomini e donne che, sprezzanti del pericolo, hanno portato cura, assistenza, talvolta, magari, solo una parola o un semplice gesto di conforto a chi lottava, tra la vita e la morte, con il virus.
In loro alberga lo spirito di chi crede in ciò che fa e interpreta la professione, non come un semplice lavoro, ma come una missione.
La missione di chi, nel momento del pericolo, dona e si dona, di chi va dove c’è bisogno di lui, di chi, davanti a chi soffre, ha la forza di lasciarsi tutto alle spalle.
E’ a loro, agli eroi silenziosi di un tempo senza eroi, che il Paese deve tributare stima e gratitudine.
Così come deve manifestare disprezzo e sdegno, per quella minoranza che purtroppo esiste, di invertebrati in camice bianco che non hanno il diritto di essere posti sul medesimo piano dei professionisti con i quali, forse, hanno in comune il titolo accademico e nulla più.
Medici e paramedici che durante la fase più cruenta dell’emergenza hanno fatto affiorare il volto peggiore che un essere umano possa mostrare.
Un volto meschino, protervo, egoista, pusillanime, emerso con disarmante evidenza durante alcune registrazioni mandate in onda ieri, nell’edizione calabrese del Tg3.
Nelle telefonate, che ricostruiscono alcuni momenti concitati della gestione dell’emergenza abbattutasi sulla Rsa di Chiaravalle Centrale - diventata tristemente nota per il focolaio di coronavirus costato la vita a 28 persone - si sente il direttore della centrale operativa del 118 di Catanzaro riferire al titolare della casa di cura che i medici ed i sanitari inviati “si sono messi in malattia”.
Il responsabile del 118 aggiunge: “che ci posso fare, se sono dei codardi, dei disertori”.
Come se non bastasse, si sente anche il medico del 118 che, arrivato davanti alla Rsa venti minuti prima di finire il turno, anziché visitare i pazienti, dice: “Non vale la pena che mi infetto pure io, vale la pena per dieci minuti?”, e se ne va.
Conversazioni che fanno il paio con altri episodi analoghi di cui le cronache si sono occupate nelle scorse settimane.
Episodi che restituiscono una scenario squallido, avvilente, popolato da figuri disposti a qualunque sotterfugio, pur di sottrarsi alle responsabilità, per le quali sono peraltro pagati.
Sono loro l’altra faccia (di sterco) della medaglia, i “codardi” che indossano il camice bianco, non per portare aiuto a chi soffre, ma forse per sentirsi parte di un circolo esclusivo, dal quale andrebbero espulsi per manifesta indegnità.
La sanzione nei loro confronti, dovrebbe essere esemplare.
L’unica punizione plausibile dovrebbe essere l’espulsione dai rispettivi ordini professionali. Non solo e non tanto per le palesi dimostrazioni d’infingardaggine, quanto per rispetto di coloro i quali sono sempre rimasti in prima linea, sacrificando amori, affetti, tempo libero e talvolta financo la vita.
E per la stima che il Paese deve nutrire nei confronti di questi ultimi, che i vigliacchi vanno radiati, perché chi ha dato tutto, non può sentirsi chiamare collega da chi non ha donato nulla, neppure ciò per cui era pagato.