Festa di san Martino: dalla Norvegia alla Calabria, il lungo viaggio dello stoccafisso
- Written by Mirko Tassone
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Cosa lega la Calabria alla Norvegia? Apparentemente nulla.
L’unica caratteristica, che le due terre collocate agli opposti confini d’Europa sembrano avere in comune, è la distanza che le divide.
Tuttavia, abbandonando il porto della superficialità, emergono lentamente comuni elementi che rendono i due popoli meno distanti di quanto si creda.
Da Giske, minuscola isola situata nella regione dei fiordi occidentali, partì, infatti, Gange-Rolv, altrimenti detto Rollone il “Camminatore” che, con i suoi vichinghi, mosse alla volta della Francia, dove, nel 911, fondò il ducato di Normandia.
Da quella regione che, dagli uomini venuti dal nord, i “northmeen” per l’appunto, ha preso il nome, intorno all’anno 1000, i normanni iniziarono a muovere alla volta dell’Italia meridionale.
Alcuni di loro, ben presto, vollero smettere i panni dei mercenari per vestire quelli dei conquistatori. A compiere il grande passo, furono gli Altavilla che, scalzato, con Guglielmo il “Guiscardo”, l’ultimo duca longobardo, nel 1077, fondarono il Regno normanno, con sede a Salerno.
Da qui, nel volgere di pochissimi anni, riuscirono a conquistare l’intero sud Italia.
La presenza normanna, soprattutto, per merito di Ruggero II, ha contribuito a plasmare la Calabria, rendendola per certi aspetti così com’è.
In tempi più recenti, però, quel che ha ricongiunto la Calabria, soprattutto centro meridionale, alla Norvegia, è la cucina, o meglio uno dei piatti più caratteristici della tradizione gastronomica locale. Una pietanza legata, anche, al culto di san Martino, al punto che in molti centri della regione è in uso il detto: “di san Martinu piscistuoccu e vinu”.
Sì, proprio, lo stoccafisso, il famoso “pesce a bastone (dal norvegese “stokkfisk”), pescato nelle fredde acque dell’Atlantico ed essiccato sugli scogli delle incantevoli isole Lofoten.
Come, il “pesce stocco”, che, altro non è, se non il merluzzo secco, sia arrivato in Calabria non è chiarissimo.
Le prime testimonianze risalgono al Cinquecento, quando, da Napoli, giunsero al porto di Pizzo Calabro i primi carichi di pesce stocco che, a dorso di mulo, iniziarono a prendere la via dell’interno, verso i paesi dove, generalmente, il pesce fresco non poteva arrivare.
A favorire la diffusione del nuovo prodotto, soprattutto nella Calabria centro meridionale, potrebbe essere stata la Certosa di Serra San Bruno, che, proprio nel 1513, era stata restituita al culto dei certosini, la cui dieta prescrive l’astinenza assoluta dalla carne.
Molto probabilmente, nel capoluogo partenopeo, era stato introdotto dai mercanti veneziani che lo avevano scoperto, già nella prima meta del Quattrocento, in maniera del tutto rocambolesca. Nella Serenissima, infatti, quello strano pesce era arrivato, grazie a Pietro Quirini, un patrizio veneziano, la cui nave, mentre era in navigazione verso le Fiandre, era andata alla deriva per alcuni mesi, prima di approdare, nel gennaio del 1432, sull’isola di Rost, nelle Lofoten.
Durante il suo soggiorno, trascorso in compagnia di sedici marinai superstiti, Querini, in una dettagliata relazione indirizzata al Senato veneziano, descrisse le abitudini dei pescatori locali, i quali “Prendono fra l'anno innumerabili quantità di pesci, e solamente di due specie: l'una, ch'è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l'altra sono passare, ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l'una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno”.
Da grandi mercanti quali erano, i naufraghi veneziani fiutarono l’affare e partendo da Rost, nel maggio del 1432, portarono con loro sessanta “stocfisi”. Giunto nel territorio della Serenissima, in ottobre, Querini “presentò” la sua scoperta. Quello strano pesce, riscontrò un immediato successo.
Ad agevolarne la diffusione non era solo il gusto, ma, anche, la facile conservazione e le prescrizioni religiose. A favore dello “stocfisi” giocava, infatti, un elemento del tutto particolare. Nell’Europa dell’epoca, durante i periodi di “magro”, oltre duecento giorni all’anno, i precetti cattolici prescrivevano l’astinenza assoluta dalla carne.
La circostanza induceva i fedeli a rivolgere la propria preferenza, proprio, verso quel pesce gustoso ed a buon mercato. La facilità di conservazione, unita alla possibilità di mangiare un piatto ricco di sostanze nutrienti, anche nelle località lontane dal mare, fecero, quindi, dello stoccafisso un prodotto particolarmente apprezzato dai calabresi. Non è un caso, infatti, che i due terzi dell’intera produzione norvegese finisca, oggi, in Calabria ed in Veneto.
Nell’estremo lembo dello stivale, lo “stocco” ha trovato la sua patria d’elezione a Mammola, tanto da essere inserito, dal Ministero delle politiche agricole e forestali, nell’elenco dei Prodotti agroalimentari tradizionali italiani.
Un prodotto tradizionale calabrese, essiccato dal tiepido sole delle Lofoten. Un vero tesoro per gli chef che possono sbizzarrirsi nell’elaborazione di autentichi manicaretti, anche se, in Calabria, la ricetta più tipica è anche quella più semplice, con sugo di pomodoro e patate.
Una ricetta tradizionale in Calabria, ma anche, ad Oslo, dove viene servito da asporto, dalla “Fiskeriet youngstorget”, la più antica pescheria ristorante della capitale norvegese.
Per vedere la galleria fotografia delle isole Lofoten, dove viene pescato e conservato lo stoccafisso clicca qui
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