Ettore Majorana, Leonardo Sciascia e la Certosa di Serra San Bruno

Un vero giallo non ha soluzione, tutt’al più può avere soluzioni. Un giallo che si rispetti, infatti, è un rompicapo le cui chiavi di lettura non sono né vere, né false, ma solo verosimili. Una regola cui non sfugge il mistero che aleggia sulla figura di Ettore Majoarana, scomparso nel 1938 e ripetutamente associato alla Certosa di Serra San Bruno.

Proprio nel monastero della cittadina calabrese, negli anni Settanta, Leonardo Sciascia cercò per diversi giorni di trovare qualche indizio riconducibile allo scienziato siciliano.

Una ricerca accompagnata da una serie di articoli pubblicati, tra il 31 agosto ed il 7 settembre 1975, sulla “Stampa” e successivamente raccolti in un volume dal titolo “La scomparsa di Majorana”. 

Un “giallo filosofico” in cui viene messa in relazione la “fuga dal mondo” dello scienziato con una crisi etica e religiosa. Per Sciascia, infatti, il fisico avrebbe deciso di sparire, perché tormentato da dubbi e scrupoli morali derivanti dall’aver intuito, con grande anticipo, gli effetti terrificanti delle ricerche sull’atomo.

Secondo la tesi avanzata dallo scrittore siciliano, Majorana avrebbe accuratamente architettato la scomparsa, prima di placare i propri tormenti interiori dietro la porta di un convento, o meglio di una certosa.

Un luogo che Sciascia visita e del quale, nell’ultimo dei sette articoli dal titolo, “Nella Certosa la rivelazione”, scrive: “[…] siamo entrati in questa cittadella dei certosini, per seguire una sottile, inquietante traccia di Ettore Majorana. Una sera, a Palermo, parlavamo della sua misteriosa scomparsa con Vittorio Nisticò, direttore del giornale “L’ora”. Improvvisamente Nisticò ebbe un preciso ricordo: giovanissimo, negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra, insomma intorno al 1945, aveva visitato, in compagnia di un amico, un convento certosino; e ad un certo punto della visita, da un “fratello” […] avevano avuto la confidenza che nel convento, tra i “padri”, si trovava un grande scienziato”.

La certosa di cui parla lo scrittore, ben presto verrà associata a quella di Serra San Bruno. Eppure, Sciascia non ne fa mai menzione. In nessuno dei suoi scritti, infatti, viene esplicitamente indicata la località in cui si sarebbe rifugiato Majorana. Si parla, genericamente, di “una cittadella dei certosini” senza, mai, associarla al luogo in cui San Bruno trascorse gli ultimi anni della propria esistenza terrena.

Come si giunse, quindi, ad identificare il luogo descritto da Sciascia con la Certosa di Serra San Bruno? Il “giallo”, a dire il vero, non durò molto, a rivelarlo, fu un giornalista della “Stampa”, Lorenzo Mondo, in un’intervista del 5 ottobre 1975, nella quale, per la prima volta, Sciascia rivela il luogo in cui ha condotto la sua indagine.

Il titolo: “Parlando con Sciascia del fisico e di altre cose”, è corredato da un catenaccio quanto mai esaustivo: “Lo scrittore fa per la prima volta il nome del convento dove sarebbe fuggito lo scienziato: la certosa di Serra San Bruno”.

Secondo l’estensore del pezzo: “A Sciascia venne in mente d'occuparsi di Majorana, di fargli posto tra le sue storie siciliane, quattro o cinque anni fa, sulla base di un'intervista rilasciata da Erasmo Recami. […]. Recami lo mise in rapporto con Maria Majorana, la sorella superstite dello scienziato: i documenti - lettere, appunti, testimonianze di amici - sui quali la singolare scomparsa gettava una forte luce di ambiguità, furono un grosso regalo per la disposizione investigatrice e raziocinante di Sciascia. Nei lettori del suo racconto resta però insoddisfatta la curiosità sulle conclusioni. Si sospetta che, dopo avere smontato la tesi del suicidio. Sciascia abbia imboccato, come dire, una « scorciatoia » poetica. « No - dice - sono convinto che sia andata così come ho scritto, che Majorana si sia ritirato in un convento». E’ disposto anche, per la prima volta, a fare il nome della certosa in cui Majorana avrebbe sepolto la sua angoscia per il terrificante potere, appena intravisto, di «una manciata di atomi». Si tratta della certosa di Serra San Bruno, in Calabria, provincia dì Catanzaro. Sciascia c'è stato davvero: ha visto i boschi verdissimi che la circondano e i resti del portico secentesco scampato al terremoto del 1783, ha indugiato nel piccolo cimitero con i trenta tumuli e le trenta croci nere senza nome. Lo ha accompagnato proprio un vecchio, enigmatico frate straniero dallo « sguardo chiaro in cui trascorrono diffidenza e ironia».  […] a Serra San Bruno era passato, inseguito dalle sue furie, il colonnello Paul W. Tibbets, l'uomo che il 6 agosto 1945 guidò la missione dell'Eriola Gay su Hiroshima. Quest'ultima storia i certosini, e particolarmente il nuovo priore Dom Anquez, l'hanno smentita più volte, ma continua a sedurre, a muovere visitatori anche da lontano. Per Sciascia questo strano accostamento, preparato dal destino o forse dalla leggenda, tra il primo uomo che diede la « morte per atomo » e un altro che se ne ritrasse inorridito, ebbe il valore di una folgorazione. « Anche se la storia non fosse vera e la certosa di Serra San Bruno non c'entrasse - spiega - l'identificazione da me proposta avrebbe una sua verità”.

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Hiroshima, 6 agosto 1945: gli Usa aprono le porte all'incubo atomico

Sei agosto 1945, dopo le lunghe piogge tipiche della stagione monsonica, su Hiroshima splende finalmente il sole. Nonostante la guerra, gli abitanti portano avanti le loro occupazione con il consueto ritmo frenetico. Nulla sembra presagire la catastrofe che sta per annientare uomini e cose. Fin dalle prime ore della giornata il centro città brulica di biciclette e camion militari. A dispetto dei due allarmi aerei risuonati nel corso della notte, le donne vanno regolarmente al mercato. Nonostante l’apparente normalità, su Hiroshima, come sul resto delle città del Sol Levante incombe l’incubo dei “Bsan”, il nome con il quale i giapponesi chiamano i B29, i bombardieri americani che nel marzo del 1945 hanno devastato Tokyo. La paura è legata soprattutto alle bombe incendiarie che, complice la struttura in legno della gran parte delle abitazioni, innesca incendi che si propagano con grandissima rapidità. Nessuno conosce, invece, l’esistenza di quell’ordigno che proprio ad Hiroshima inaugurerà l’era atomica. L’arma, nata dal “Progetto Manhattan”, è stata costruita in gran segreto. Il presidente americano Harry Truman non vede l’ora di impiegarla in guerra, a tal punto che dalla fine della sperimentazione all’impiego bellico non passa neppure un mese. La fase conclusiva del progetto viene messa a punto nel deserto del Nuovo Messico il 16 luglio, quando, nel poligono di Alamogorno, viene fatta esplodere una bomba i cui effetti sono devastanti. La funzione della nuova arma, molto probabilmente, non è quella di accorciare la durata del conflitto, il cui esito, dopo la fine della guerra in Europa, è ormai segnato, bensì a far vedere i muscoli all’Unione Sovietica. Come sanno gli analisti statunitensi, chiusa la partita con le potenze del “Tripartito”, la sfida futura vedrà protagonisti due blocchi guidati da Usa ed Urss. Nel subdolo linguaggio cifrato della politica internazione, il nuovo ordigno rappresenta, quindi, un inequivocabile messaggio indirizzato alla controparte. La storia della bomba sganciata 72 anni fa ad Hiroshima, nome in codice “Little boy”, inizia l’1 agosto 1945 a Tinian, la base militare delle isole Marianne, dove l’ordigno, della lunghezza di 3 metri e del peso di oltre 4 tonnellate, viene montato. Al suo interno sono contenuti 68 chili e 280 grammi d’uranio. Nessuno conosce ancora il nome della città che legherà il suo nome alla prima esplosione nucleare della storia. Solo per uno sfortunato caso l’atomica sarà sganciata su Hiroshima. Le città candidate, infatti, sono quattro: Kokura, Nagasaki, Yokohama e Hiroshima. La scelta della località da bombardare è condizionata dalla meteorologia. Decollato alle 2,45, l’Enola Gay, questo il nome del B29 guidato dal colonnello Tibbets sul quale è stata caricata la bomba, non conosce ancora il suo bersaglio. Ad indirizzare il velivolo saranno i ricognitori inviati sulle città prescelte. Alle 7,45 gli aerei incaricati di verificare le condizioni meteo arrivano a destinazione. I messaggi inviati via radio a Tibbets lasciano pochi margini di scelta. A Kokura, Nagasaki e Yokohama il cielo è coperto e la visibilità è ridotta, situazione decisamente diversa a Hiroshima dove la visibilità supera le dieci miglia. L’Enola Gay si dirige quindi sulla città che, in quel momento, ospita 245 mila abitanti, altri 100 mila sono stati sfollati. Alle 8,15 e 17 secondi viene aperto il portellone della stiva e l’ordigno, sul quale sono stati scritti decine di oltraggiosi messaggi indirizzati all’imperatore, inizia la sua caduta nel vuoto. Quarantatre secondi dopo, a 660 metri da terra, i detonatori innescano l’esplosione che origina una palla di fuoco di oltre 100 metri di diametro. Nei sette secondi successivi, la temperatura raggiunge i 300 mila gradi, nel raggio di tre chilometri non rimane pressoché nulla. Da terra si alza una colonna di vapore, fumo, polvere e detriti che supera i 3 mila metri d’altezza e si allarga in cima per un diametro di 17 mila metri. Al suolo è l’apocalisse. Nel raggio di 12 chilometri quadrati i danni sono inimmaginabili, 30 mila persone sono state letteralmente polverizzate, di loro non rimarrà alcuna traccia. Complessivamente, secondo le stime di Tokyo, i morti sono 70 mila, i feriti, la gran parte dei quali ustionati, sono 130 mila. Per gli americani la missione è un successo. Truman è raggiante, a tal punto, da autorizzare un nuovo attacco atomico che verrà eseguito a soli tre giorni di distanza. Il nove agosto, infatti, una seconda bomba chiamata “Fat man”, sganciata su Nagasaki, la città in cui risiede la più grande comunità cattolica del Giappone, provoca 30 mila morti e 60 mila feriti. La guerra è finita, l’incubo atomico è appena iniziato.

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