Mongiana: la signora Rosina, ultimo baluardo della civiltà contadina
Rosina, mani da soldato e gote arrossate dalla calura, m’indica una casetta abbracciata dai ciuffi di parietaria: «Andiamo lì – mi dice – saremo al fresco». Come le tante contadine del sud, anche nei campi, è avvolta nel nero di sempre. Oltre al lutto per il defunto marito, nelle sue parole si legge anche quello per la società contadina che ha lasciato il passo alla civiltà moderna: «Che volete ormai i tempi sono cambiati». E’ domenica mattina e i solchi battuti dal sole la vedono già dalle prime luci dell’alba intenta a parlare con le piante e ad ascoltare la terra. Rosina ha un cuore caldo come la pietra focaia e si preoccupa subito di donarmi qualcosa. Entriamo nella casa di Santa Maria di Cropani, nel comune di Mongiana, dove una credenza e un vecchio tavolo occupano mezza stanza, quattro sedie impagliate s’impossessano del resto mentre il cane fa una tregua con se stesso per non finire subito un tozzo di pane raffermo. Economa in tutto, mastica lentamente e mi ricorda una vecchia zia contadina: ad un cane che la guardava mentre gustava una pasta alla crema disse: «Prendi, mangiane anche tu, da come mi guardi sembra che non ne hai visto mai». E’, forse, una delle ultime rappresentanti della civiltà contadina calabrese, o almeno di quella parte di civiltà contadina pura, fatta di uomini e donne dalla vita passata ad imbrunire sull’uscio di una sola stanza. Dalle credenze popolari suggestive, fatte di miti e di superstizioni ma anche di sofferenza e coraggio. Già, perché per dirla con Ignazio Silone, i contadini, quelli del sud, non sono come quelli che ci mostra la televisione che a lavoro ci vanno fischiettando, no. Nell’alta montagna ci vanno sofferenti, e, forse, imprecano pure. Mi racconta di quella volta quando una zingara, durante la fiera di ferragosto a Serra, la guarì da uno strano male che le portava forti dolori di testa e che spesso la faceva a cadere a terra come fosse morta: «Voi non ci credete – mi dice sorridendo – ma quella donna indovinò i soldi che mio marito aveva in tasca, fu questo che mi convinse a sottopormi ai suoi rimedi particolari». Gli occhi spietati della memoria la invitano a parlare di amori, odi e drammi personali e collettivi. Li rievoca come fossero episodi di un lungo viaggio che sta per giungere al capolinea. Come uno di quelli che era solita fare da bambina, quando, con la propria famiglia andava a lavorare per conto di «padroni», avidi e ottusi. Ma sempre a contatto con la grande madre terra.
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