Lo statista e i generali, quando Moro mediò con i golpisti
Due falchi atlantisti in lotta perenne tra loro. Furono Giovanni de Lorenzo, generale dei carabinieri la cui immagine rimase legata al piano Solo, e Giuseppe Aloia, generale dell’esercito e comandante di stato maggiore della Difesa.
I due alti ufficiali furono in disaccordo praticamente su tutto: falchi che facevano a gara a chi volava più in alto.
Spregiudicato e incline al dialogo serrato con la politica che conduceva in condizioni di reciproco condizionamento, il carabiniere siciliano ebbe la carriera sfregiata dalla sua passione per l’intelligence.
Focoso ed efficientista, il generale romano tentò di ammodernare l’esercito per allineare la difesa italiana agli standard (qualitativi ma anche di fedeltà) richiesti dalla Nato. Per la sua opera organizzativa ricevette una medaglia da Kennedy mentre in patria si beccò accuse di criptofascismo (dovute anche all’istituzione dei corsi di ardimento in cui i militari venivano addestrati ad operazioni di guerriglia e controguerriglia secondo le dottrine Stay Behind).
Le loro carriere e la loro rivalità, che sfociò in inimicizia aperta, si svilupparono nel contesto delicatissimo dei primi governi di centrosinistra e delle prime riforme dei servizi segreti. Logica conseguenza di questa situazione, storica ed esistenziale, furono i rapporti piuttosto profondi con i vertici dei partiti di governo, in particolare la Democrazia cristiana. Incluso Aldo Moro.
I rapporti tra il leader della Dc e i due generali sono stati ricostruiti dallo studioso Francesco Maria Biscione della Fondazione Flamigni durante il recente convegno dell’Università della Calabria intitolato Aldo Moro e l’intelligence. Il senso dello Stato e la responsabilità del potere, organizzato da Mario Caligiuri, direttore del Master sull’intelligence.
In particolare, Biscione ha ricostruito, sulla base del corposo (e ancor oggi discusso) memoriale redatto dallo statista durante la prigionia nel covo delle Brigate Rosse, due episodi delicati della storia repubblicana, in cui Moro ebbe un ruolo determinante.
Il primo riguarda la vicenda turbolenta dell’effimero governo Tambroni (1960), che si reggeva anche grazie al supporto esterno del Msi. Nella caduta di questo esecutivo, avvenuta un anno dopo l’ascesa di Moro alla segreteria scudocrociata, ebbero un ruolo determinante le informazioni passate da de Lorenzo al leader Dc. In questo caso, la ricostruzione di Biscione è riscontrata da documenti dell’Archivio di Stato di Milano che provano l’effettivo interessamento del Sifar nella storia del governo Tambroni.
Il secondo episodio, decisamente più inquietante per via del contesto, è legato alla strategia della tensione. Siamo nel 1969 e Moro, stando alla ricostruzione di Biscione, avrebbe collegato l’inizio di questa strategia a un’iniziativa di Aloia rivolta alla Dc. Questa iniziativa, poco conosciuta e dal contenuto non ancora noto, divise i vertici Dc in due blocchi: tra i favorevoli vi furono Flaminio Piccoli e Mariano Rumor, tra i contrari lo stesso Moro.
La vicenda proverebbe, secondo Biscione, che alcuni settori dell’esecutivo sapessero della matrice nera delle bombe sin dal 12 dicembre 1969.
Resta una domanda: come mai Moro, che nel decennio successivo avrebbe iniziato il faticoso dialogo con il Pci, in quegli anni aveva rapporti così stretti con alcuni settori particolari del mondo militare?
Per Biscione la strategia dello statista si basava sulla consapevolezza che lo Stato contenesse anche l’antistato e, quindi, sulla necessità di trovare un punto di equilibrio il più avanzato possibile - nel partito, nella società e nei rapporti internazionale - perché eventuali rotture avrebbero precipitato il Paese in mano ai settori più reazionari.
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