Carlo Amirante, il calabrese che aprì la breccia di Porte Pia
«Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città eterna, nella quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico». Con questa dichiarazione, pronunciata al cospetto del parlamento, l’11 ottobre 1860, Cavour aveva prefigurato la presa di Roma quale momento conclusivo e culminante dell’Unità d’Italia. Un evento destinato a realizzarsi dieci anni dopo, quando i bersaglieri del generale Raffaele Cadorna piegarono la simbolica resistenza delle truppe pontificie e consegnarono Roma all’Italia. Un episodio militare secondario, per un fatto storico di primaria importanza, cui prese parte, in un ruolo decisivo, un calabrese, nato a Soverato diciotto anni prima. Il primo ad aprire il fuoco dei cannoni, intorno alle 6,30 di martedì 20 settembre 1870, fu, infatti, un giovanissimo sottotenente d’artiglieria, Carlo Amirante. Le salve andarono avanti per quattro ore, prima che i bersaglieri riuscissero a conquistare la breccia che avrebbe decretato la fine del potere temporale della Chiesa. A propiziare l’evento, una lunga serie di antefatti. Nel 1862 Garibaldi era partito da Caprera alla volta di Palermo con l’intento di ripercorrere le tappe dei Mille, questa volta con destinazione Roma. La marcia dell’Eroe dei due mondi, però, era stata fermata sull’Aspromonte dai bersaglieri, inviati dal governo per evitare complicazioni diplomatiche con Napoleone III, che si era dichiarato protettore di Roma. Seguì, quindi, la Convenzione stipulata a Parigi, il 15 settembre 1864, con la quale la Francia si era impegnata a ritirare entro due anni le proprie truppe da Roma; in cambio l’Italia aveva dichiarato di rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio. Ad ulteriore garanzia, nell’accordo era stata inserita una clausola con la quale il governo italiano si era impegnato a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Un atto simbolico di rinuncia a Roma capitale, destinato a suscitare nei torinesi proteste popolari talmente vibranti da costringere l’esercito ad aprire il fuoco sui manifestanti. Al termine degli scontri, rimasero sul selciato 54 morti e 187 feriti. Tre anni dopo, nel 1867 Garibaldi era partito da Terni con 10 mila volontari, ma conquistata la piazzaforte pontificia di Monterotondo, era stato costretto a capitolare a Mentana, sotto i colpi dei soldati pontifici, supportati dalle truppe francesi. A mutare radicalmente il quadro e ad offrire una significativa possibilità di successo, il 2 settembre 1870, intervenne la sconfitta di Napoleone III a Sedan e la conseguente fine del Secondo impero. Con la disfatta francese, la convenzione del 1864 poté essere ignorata senza il timore di un intervento francese a difesa di Pio IX. A metà agosto, con il giungere delle notizie dei primi rovesci dell’esercito transalpino sulla confine alsaziano-lorenese, la diplomazia sabauda si era attivata per costruire il casus belli che le avrebbe permesso di sferrare l’attacco decisivo alla città Eterna. Il 29 agosto, il ministro degli esteri italiano, il marchese Emilio Visconti Venosta, aveva inviato a Parigi un dispaccio nel quale, seppur in maniera sibillina, aveva comunicato di voler trovare una soluzione alla mancata “conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l’Italia”. Nelle stesse ore, una circolare del Ministro degli esteri era stata trasmessa agli ambasciatori italiani affinché segnalassero alle potenze europee la costituzione di un esercito mercenario con il quale lo Stato Pontificio si proponeva di muovere un’improbabile crociata. Alla circolare era stato allegato un memorandum in dieci punti nel quale erano state delineate le condizioni e le proposte per salvaguardare la libertà di azione del Papa e della Chiesa. Acquisito il tacito consenso delle potenze europee, Vittorio Emanuele II, l’8 settembre, aveva fatto recapitare al Pontefice una lettera nella quale comunicava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltratesi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine». L’11 settembre, il Pontefice aveva replicato: « Maestà, Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà». Nelle ore in cui Pio IX vergava la sua risposta, al generale Raffaele Cadorna era stato consegnato l’ordine di predisporre la marcia dei suoi 60 mila uomini alla volta di Roma. Domenica 18, l’esercito italiano si accampò alle porte della capitale. A fronteggiarlo 15 mila soldati, prevalentemente Zuavi, comandati dal generale Kanzler. Nonostante lo scontro, ormai, imminente, Pio IX decise di non abbandonare Roma e di opporre una simbolica resistenza a prova della violenza subita. La giornta del 20, si preannunciava piuttosto calda, non solo dal punto di vista climatico. Il direttore dell’Osservatorio meteorologico del Collegio Romano, padre Angelo Secchi, nel diario dell’istituto, sarcasticamente scriveva: «20 settembre. Bello. Cannonate al mattino, furfanterie fino a sera. Nord e sud – ovest leggero. Cresce poco il barometro. Magneti poco regolari». Alle 6,30 le prime salve di cannone iniziarono a cadere sulle mura della capitale dello Stato pontificio, alle 10 si aprì la prima breccia. La capitolazione venne comunicata, pochi minuti dopo, quando su Castel Sant’Angelo e sul torrino del Quirinale venne issata la bandiera bianca. Lo scontro, durato poche ore, lasciò sul terreno, 13 ufficiali, 43 soldati e 141 feriti da parte italiana; 20 morti e 49 feriti tra i papalini. Il 2 ottobre il plebiscito consegnò i seguenti risultati: a Roma 40765 sì e 46 no; in tutto lo Stato 133681 sì e 1507 no. L’apertura della breccia di Porta Pia spesso è stata celebrata dalle diverse confraternite anti-clericali come il trionfo sull’oscurantismo cattolico. Tuttavia, poche volte è stato ricordato che Carlo Amirante, autore materiale delle breccia, dopo essere rimasto ferito negli scontri, indirizzò a Pio IX una lettera nella quale spiegava: «La mattina del 20 settembre scorso dovetti come militare eseguire senza discutere gli ordini che mi erano stati dati. Fui ferito e chissà che la Beata Vergine non mi abbia salvato concedendomi il privilegio di inginocchiarmi ai piedi di Vostra Santità». Il Pontefice lo convocò subito e lo ricevette in udienza privata. Al termine dell’incontro il giovanissimo capitano, era stato promosso sul campo per la ferita subita, decise di svestire la divisa dell’esercito italiano per abbracciare quella con le insegne di Cristo. Nel 1877, dopo essere stato ordinato sacerdote, venne inviato a Napoli dove morì nel 1934. Nel corso della sua vita, oltre a spendersi in opere caritative, si interessò di matematica, musica e lettere, annoverando tra le proprie allieve la scrittrice Matilde Serao. Il 19 giugno 1980 venne aperta la sua causa di beatificazione.
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