La Calabria e la civiltà del porco
Chiacchierando con amici, qualche tempo fa, nell’affrontare il tema delle minacce dell’Isis all’Italia, ebbi a dire che la Calabria non avrebbe avuto nulla da temere dai tagliagole del Califfato.
Più che una previsione, una certezza, fondata sulla considerazione che la nostra regione, è irriducibilmente refrattaria ad alcuni dei più significativi postulati islamici.
Giusto per fare qualche esempio, in Calabria, non rinunceremmo mai al maiale, anzi al porco.
Se qualche manipolo di musulmani in armi dovesse sbarcare sulle calabre coste, verrebbe ricacciato in mare immantinente. L’idea di dover rinunciar al maiale, farebbe muovere in armi i calabresi tutti, vegliardi ed infanti compresi.
Rinunciare all’amato suino, vorrebbe dire, infatti, tradire il più fedele amico dell’uomo, calabrese s’intende!
Come si potrebbero voltare le spalle al cospetto di quella fedeltà incondizionata, portata, ogni anno fino all’estremo sacrificio?
Ahi, quanto sarebbe triste entrare in casa e non sentire l’afrore della soppressata o della pancetta appesa a stagionare.
Quanto sarebbe sconfortante alzare gli occhi e vedere il tavolato spoglio, senza neppure una misera “resta” di salsicce.
E poi, ci sono le considerazioni di carattere storico da non sottovalutare.
La storia calabrese viaggia, infatti, sulle gambe del suino. In una terra quasi del tutto priva di pianure, sarebbe stato impensabile poter sviluppare l’allevamento di mucche o pecore. Meglio, molto meglio, il maiale e la capra. Il primo, perché mangia tutto, la seconda perché mangia ovunque.
Il porco, poi, non essendo relegato alla vita solitaria di campagna, per secoli ha avuto, anche, un suo ruolo sociale, una sua dignità ed una dimensione urbana. E’ stato, infatti, un vero e proprio cittadino, con le sue abitudini ed i suoi luoghi di ritrovo.
A fornirne una colorita conferma, uno scritto di Vincenzo Padula, pubblicato il 4 maggio 1864, sul giornale “Il bruzio”. L’articolo, dal titolo, “L’ostracismo de’ porci”, prendeva lo spunto da una polemica sollevata da chi voleva relegare, il povero quadrupede, in campagna. Un oltraggio, una vera e propria offesa, perché il maiale non è mai stato un animale qualunque.
Scrive Padula: “ il Calabrese nasce tra i porci e le porcelle. Questi che insieme ai ghiri sono i soli animali privilegiati di avere attorno la corpo uno strato di grasso, sono in sommo pregio tra noi; e fu un frate calabrese colui che disse: Se il porco avesse l’ali sarebbe simile all’angelo Gabriele”.
Chi era interessato ad allontanare l’amato porco lo s’intuisce facilmente, poiché nei paesi della Calabria “ lasciate da parte i tre o quattro edifici di nobile apparenza; visitate uno appo l’altro quei bugigattoli, dove stivate, pigiate, affumicate albergano le famiglie del popolo, e sempre e da per tutto il medesimo spettacolo di miseria attristerà gli occhi vostri”.
Con tutta evidenza, a voler buttare fuori dal civile consesso il maiale, erano i sedicenti nobili o ancor peggio, i poveri arricchiti. Gli altri, le persone comuni, il porco lo volevano così vicino da tenerlo, addirittura, in casa, o meglio in uno di quei bugigattoli dove “ a destra dell’uscio un asino sgretola il suo fieno, poi un focolare senza fuoco e senza pentola con un gatto soriano accoccolato sulla cenere, poi di fronte una finestra priva di vetri e d’impannata, con orciuoli e scodelle sul davanzale; poi a sinistra un fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo, e presso al truogo un porco, e razzolanti qua e colà galli, galline e pulcini che beccano ciò che cade dalla bocca dell’asino, e la crusca rimasta appiastricciata sul grifo del porco, e quando il bimbo che sta sul letto vagisce, il porco grugnisce, il gatto miagola, l’asino raglia, la gallina schiamazza”.
Ma il porco non si limitava, soltanto, a dormire sotto il letto. No, oltre agli agi della vita domestica, aveva assunto i vizi e le abitudini prodotte dall’urbanizzazione. Il maiale, infatti, usciva di casa, respirava la vita del paese ed appena gli era possibile scorrazzava “per le vie”, passeggiava “per le piazze”. Il porco calabrese era un porco di mondo, amava gli agi e non disdegnava la mondanità; entrava nei “caffè”, si fermava “innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli butta[va]no i bevitori, e quando bene gli pare [va] entra[va] in chiesa a sentire la predica”.
Sembrerà strano, direte voi, un suino in chiesa! Ma a tutto c’è una spiegazione. “I porci, infatti, ebbero il loro giudizio, si posero sotto il patrocinio di sant’Antonio”.
Una protezione che il maiale ripagava come poteva, infatti “appressandosi la stagione del porcocidio”, in giro per i paesi si vedevano “i frati condursi da uscio ad uscio lasciando cinque pentolini di creta alla donna calabrese” ed al “fraticello” che tornava “indi a 15 giorni” ne restituiva “uno solo, ma pieno di strutto”.
Di rinunciare al porco, quindi, neppure a parlarne, soprattutto in un tempo in cui il “villano [era] si povero [ da dover] rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca; e finché quel tempo non [veniva], oh con che tenerezza non guarda[va] il suo maialetto!”.
Un’attesa sì lunga e speranzosa da indurre la saggezza popolare a dire: “Amaru cui lu puorcu non s’ammaza ca li vida e li disijia li satizzi” (A chi porco non ha la sorte è ria; Ei vede la salsiccia e la desia).
Il porco, quindi, aveva a tavola un posto centrale, sia da morto che da vivo, non a caso il suo allevatore “ visto il figlio a mangiarsi un pugno di castagne, glielo tolse, e buttolle alla bestia”; perché, si sa, “Meggjiu mu crisci lu puorcu ca nu figghiu, puru l’ammazzi e t’unti lu mussu” ( Val meglio crescer porci, e non figliuoli, Ché uccidi il porco e 'l muso ti consoli”
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L'antica arte serrese del sanguinaccio
Lungo ed indissolubile è il legame che unisce la Calabria ed i calabresi al maiale. Al ”porco” andrebbe dedicata un’elegia nella quale decantare le sue incommensurabili virtù.
Ogni paese calabrese dovrebbe elevargli un monumento.
Per secoli, infatti, è stato proprio lui a restituire con gli interessi ciò che aveva ricevuto nel corso dell’anno. I beneficiati di una tale provvidenza, a tutte le latitudini, si sono ingegnati a conservare, per i tempi grami, tutto ciò che si potesse deteriorare. Ma, poiché, del buon suino non si butta via niente, la fantasia e la fame si sono coalizzate per trasformare in leccornie, anche le parti apparentemente meno appetibili.
Così, ad esempio, il sangue che oggi renderebbe insonni le notti di tanti schizzinosi, per decenni ha garantito un buon apporto calorico agli strati popolari.
Quando l’arte culinaria non veniva ancora esercitata in asettici studi televisivi, ma sulla fiamma del focolare, tante donne s’industriavano a trasformare il sangue del maiale in sanguinaccio.
Non stiamo parlando, ovviamente, della versione dolce, bensì di quella destinata ai palati più audaci.
Un’arte che a Serra trovava espressione nelle rivendite, generalmente le macellerie, dove era possibile acquistare “nu capu di sangunazzu”. All’uscita dalla messa domenicale di “la Curunedha”, i serresi di un tempo non andavano a fare colazione al bar; si recavano, piuttosto, a comprare un pezzo di sanguinaccio, che veniva portato a casa per essere condiviso con il resto della famiglia. Il più delle volte, però, prendeva un'altra strada per finire associato ad almeno un quarto di vino in una delle tante osterie che popolavano il centro storico.
La genesi del sanguinaccio iniziava, ovviamente, con l’uccisione del maiale quando qualche “novizio” veniva incaricato di raccogliere in un contenitore ogni stilla di sangue fuoriuscita dalla ferita prodotta dalle mani esperti di chi si faceva carico di mandare all’altro mondo il miglior amico dei calabresi. A quel punto, con l’ausilio di un cucchiaio di legno, o più semplicemente con una mano s’iniziava a girare vigorosamente il liquido appena raccolto affinché non coagulasse. Lasciato qualche ora a riposare, poteva prendere due strade. La prima, vedeva protagonisti i rivenditori che passavano per le case a proporre mestoli di sangue che finiva in una padella, fritto con un filo d’olio. L’altra, quella più elaborata, portava direttamente nelle cucine in cui le abili mani di donne esperte iniziavano a mette in fila gli ingredienti necessari a produrre il prelibato sanguinaccio.
S’iniziava facendo friggere il grasso di maiale tagliato a pezzettini minuscoli, frattanto, seguendo le giuste proporzioni, il sangue veniva miscelato ad acqua. Era poi la volta del sale e del pepe nero, il tutto, una volta unito, finiva nelle budella, le stesse utilizzate per insaccare le salsicce. A quel punto, iniziava il lavoro più delicato, la cottura. Si trattava di un processo per il quale serviva una perizia di lungo corso. Bisognava, infatti, riconoscere la giusta temperatura per evitare che, nel caso l’acqua fosse troppo calda, le budella si rompessero, facendo fuoriuscire il contenuto. Al contrario, una temperatura non adeguata, avrebbe impedito al sangue di coagulare, rendendolo immangiabile. Inconvenienti nei quali, tuttavia, non incorreva chi riusciva a guadagnarsi da vivere con un mestiere oggi impensabile. Completata la cottura, iniziava la vendita.
Gli avventori avviavano, così, il loro lento pellegrinaggio per “reclamare” una parte di sanguinaccio. Consuetudine imponeva che lo si mangiasse infilandolo in bocca e sfilandone lentamente il contenuto. Una delizia, oggi quasi del tutto estinta, che ha allietato per decenni i rustici palati di persone che, a Cracco ed ai vegani, avrebbero fatto una sonora pernacchia.
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