L'antica arte serrese del sanguinaccio

Lungo ed indissolubile è il legame che unisce la Calabria ed i calabresi al maiale. Al ”porco” andrebbe dedicata un’elegia nella quale decantare le sue incommensurabili virtù.

Ogni paese calabrese dovrebbe elevargli un monumento.

Per secoli, infatti, è stato proprio lui a restituire con gli interessi ciò che aveva ricevuto nel corso dell’anno. I beneficiati di una tale provvidenza, a tutte le latitudini, si sono ingegnati a conservare, per i tempi grami, tutto ciò che si potesse deteriorare. Ma, poiché, del buon suino non si butta via niente, la fantasia e la fame si sono coalizzate per trasformare in leccornie, anche le parti apparentemente meno appetibili.

Così, ad esempio, il sangue che oggi renderebbe insonni le notti di tanti schizzinosi, per decenni ha garantito un buon apporto calorico agli strati popolari.

Quando l’arte culinaria non veniva ancora esercitata in asettici studi televisivi, ma sulla fiamma del focolare, tante donne s’industriavano a trasformare il sangue del maiale in sanguinaccio.

Non stiamo parlando, ovviamente, della versione dolce, bensì di quella destinata ai palati più audaci.

Un’arte che a Serra trovava espressione nelle rivendite, generalmente le macellerie, dove era possibile acquistare “nu capu di sangunazzu”. All’uscita dalla messa domenicale di “la Curunedha”, i serresi di un tempo non andavano a fare colazione al bar; si recavano, piuttosto, a comprare un pezzo di sanguinaccio, che veniva portato a casa per essere condiviso con il resto della famiglia. Il più delle volte, però, prendeva un'altra strada per finire associato ad almeno un quarto di vino in una delle tante osterie che popolavano il centro storico.

La genesi del sanguinaccio iniziava, ovviamente, con l’uccisione del maiale quando qualche “novizio” veniva incaricato di raccogliere in un contenitore ogni stilla di sangue fuoriuscita dalla ferita prodotta dalle mani esperti di chi si faceva carico di mandare all’altro mondo il miglior amico dei calabresi. A quel punto, con l’ausilio di un cucchiaio di legno, o più semplicemente con una mano s’iniziava a girare vigorosamente il liquido appena raccolto affinché non coagulasse. Lasciato qualche ora a riposare, poteva prendere due strade. La prima, vedeva protagonisti i rivenditori che passavano per le case a proporre mestoli di sangue che finiva in una padella, fritto con un filo d’olio. L’altra, quella più elaborata, portava direttamente nelle cucine in cui le abili mani di donne esperte iniziavano a mette in fila gli ingredienti necessari a produrre il prelibato sanguinaccio.

S’iniziava facendo friggere il grasso di maiale tagliato a pezzettini minuscoli, frattanto, seguendo le giuste proporzioni, il sangue veniva miscelato ad acqua. Era poi la volta del sale e del pepe nero, il tutto, una volta unito, finiva nelle budella, le stesse utilizzate per insaccare le salsicce. A quel punto, iniziava il lavoro più delicato, la cottura. Si trattava di un processo per il quale serviva una perizia di lungo corso. Bisognava, infatti, riconoscere la giusta temperatura per evitare che, nel caso l’acqua fosse troppo calda, le budella si rompessero, facendo fuoriuscire il contenuto. Al contrario, una temperatura non adeguata, avrebbe impedito al sangue di coagulare, rendendolo immangiabile. Inconvenienti nei quali, tuttavia, non incorreva chi riusciva a guadagnarsi da vivere con un mestiere oggi impensabile. Completata la cottura, iniziava la vendita.

Gli avventori avviavano, così, il loro lento pellegrinaggio per “reclamare” una parte di sanguinaccio. Consuetudine imponeva che lo si mangiasse infilandolo in bocca e sfilandone lentamente il contenuto. Una delizia, oggi quasi del tutto estinta, che ha allietato per decenni i rustici palati di persone che, a Cracco ed ai vegani, avrebbero fatto una sonora pernacchia.

 

 

 

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