Serra, anno 1944: il popolo assalta il forno e si rischia la strage
La fame del popolo è la peggiore nemica dei governanti.
I crampi allo stomaco hanno sempre rappresentato il brodo di coltura di rivolte, ribellioni, talvolta vere e propri rivoluzioni.
In un passato, non tanto lontano, il prodotto alla base dell’alimentazione delle classi popolari era il pane. La fame derivante dalla sua mancanza o da un suo semplice rincaro produceva, inevitabilmente, sedizioni contro le autorità costituite. Nel corso dei secoli, i morsi della fame hanno trasformato in armi gli oggetti da lavoro ed in ribelli i lavoratori, gli sfaccendati ed i nullatenenti.
Il vento della rivolta provocato dai crampi allo stomaco non ha risparmiato neppure Serra, la cui popolazione, notoriamente paciosa, fu protagonista di un avvenimento poco conosciuto.
Ad impedire che l’episodio venisse fagocitato dal buco della memoria è stato Vinicio Gambino che ne ha parlato diffusamente nel suo “Racconti serresi”.
La storia che, fatte le debite proporzioni, ricorda l’assalto ai forni di manzoniana memoria, risale al 1944.
Con il fascismo caduto da oltre sei mesi, in seguito all’armistizio dell’8 settembre, l’Italia era divisa a metà e Serra, come tutto il Regno del Sud, soggiaceva alle poco clementi attenzioni delle truppe alleate, soprattutto inglesi, il cui contegno nei confronti della popolazione locale era contraddistinto dalla tipica boria del conquistatore.
Fu in questo contesto, caratterizzato da soprusi e privazioni che i serresi “insorsero”, trasformando il “vociare confuso” in ribellione.
La scintilla scoppiò domenica 30 gennaio 1944, quando una “fiumana di gente che calava da Spinetto” iniziò ad urlare: “I nostri figli stanno morendo di fame! Non abbiamo con che cosa sfamarli! Dateci pane!”. Lungo il percorso la folla s’ingrossò, crebbe e come un fiume in piena sfociò in piazza San Giovanni dove, l’uno di fronte all’altro, sorgevano il municipio ed il quartier generale delle truppe inglesi.
“I dimostranti - scive Gambino - brandivano bastoni, forconi e manici di zappa o di accetta: finanche i bambini avevano in mano pezzi di rami di faggio. C’era, però, in mezzo a loro, qualcuno che in tasca nascondeva una bomba a mano”. A cercare di placare gli animi, dal balcone della casa comunale, ubicata nei locali in cui oggi sorge il circolo Unione, intervenne “il tenente dei carabinieri Buda, insieme a qualche rappresentante dell’amministrazione comunale”. Le parole del tutore della legge non sortirono alcun effetto, del resto come ricordava Seneca nel “De brevitate vitae”, “Il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera”.
Così, “dalla piazza si levò, una voce: ‘al panificio! Andiamo al panificio!’”. La reazione non si fece attendere, i rivoltosi ripresero, quindi, la loro disordinata marcia “verso l’estremità del paese dove c’era il forno, facente parte di un fabbricato detto ‘lu mulinu’”.
Sul posto, in men che non si dica, si erano schierati i carabinieri guidati dal tenete Buda, le guardie campestri e quelle municipali.
“Giunti davanti al panificio e avendo trovato la porta sbarrata, i dimostranti, con la rabbia in corpo, afferrati dei grossi massi che si trovavano accatastati lì vicino, iniziarono a menare violenti colpi nel tentativo di scardinarla”. Nel disperato tentativo di fermare la torma affamata, Buda estrasse la pistola ed esplose un colpo in aria. Ma più che le pallottole i “rivoltosi” temevano la fame. Richiamata dall’afrore del lievito e dalla fragranza del pane appena sfornato, la folla non si fece intimidire e continuò imperterrita nel suo proposito. Vista la situazione, il tenente intimò ai suoi uomini “le armi, le armi! Fuoco, fuoco!”. Ma l’ordine, che avrebbe causato una strage, non venne eseguito.
Ad impedire che i moschetti sputassero le loro pallottole sui corpi emaciati di quei poveri cristi fu un’esplosione improvvisa. Qualcuno, infatti, aveva lanciato una granata all’indirizzo dei carabinieri. Le schegge della bomba investirono i pieno i militari, uno dei quali scaraventato “al di là del muretto di protezione dell’Ancinale” riportò la frattura di entrambe le gambe. Nell’esplosione rimase ferita anche una donna, “Rosarina di Ciccone” che, per non compromettersi, si era spostata “nella parte dove c’erano le forze dell’ordine”. Nonostante il marasma, la folla non deflesse dal suo proponimento ed entrata nel panificio saccheggiò tutto ciò che poteva.
Così, “uscivano, a mano a mano, donne con ceste colme di pane ancora caldo tolto allora dal forno; altre non avendo con sé alcun recipiente, si erano riempite il grembiule (‘lu faddali’) di farina, di quella bianca […] altre trascinavano dei sacchi pieni lungo la strada che lacerandosi causavano la fuoriuscita della farina e su cui si avventavano coloro che, data la ressa, non erano riusciti ad entrare nel panificio […]. Anche gli uomini si erano dati da fare e andavano curvi sotto il peso dei sacchi che si erano caricati sulle spalle”. Quell’improvvisa ed inaspettata abbondanza aprì le porte alla fantasia. Ognuno immaginava il momento in cui la farina si sarebbe trasformata in pane caldo, “tagghiarini” fumanti o sinuosi “stranghugghi”.
A mortificare quei genuini voli pindarici ci pensarono i soldati americani ed inglesi che, già nel pomeriggio, “arrivarono a Serra, a bordo di alcuni autocarri” per “ristabilire l’ordine pubblico ed indagare su quanto era accaduto”.
I soldati stranieri non andarono per il sottile e “fino a notte inoltrata” perquisirono le case dei dimostranti. “Sempre in quella serata, i militari, sequestrarono il pane e la farina che erano stati portati via dal panificio, pasta lievitata, zeppole e finanche le tagliatelle che stavano cocendo”. Alle perquisizioni seguirono gli arresti e gli interrogatori che andarono avanti per tutta la notte. L’indomani mattina ben 180 persone furono trasferite nel carcere di Vibo Valentia.
Accusati a vario tiolo “di tentata strage, sobillazione, furto aggravato, associazione a delinquere” i dimostranti furono sottoposti a processo e condannati a pene detentive dai 4 mesi ai sette anni. La sentenza più pesante, poi ridotta a cinque anni, venne pronunciata a carico di “Francesco Campese, detto ‘Pruovuluni’”, accusato da una donna, di aver lanciato la bomba a mano. Nonostante si fosse proclamato sempre innocenza, il povero Campese dovette scontare l’intera pena nel carcere di Cagliari.
La rivolta del 30 gennaio, quindi, non solo non servì a scacciare, seppur, temporaneamente la fame, ma come suol dirsi a Serra provocò, “supa a corna vastunati”.
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