Christopher Duggan, ne è pienamente convinto. Il nucleo emotivo su cui si basa l’unità d’Italia è debole ed inconsistente.
Nel suo saggio “La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 ad oggi”, lo storico inglese, sostiene che figlio di ambizioni e frustrazioni, di slanci e di sconfitte, vi fu l’incapacità da parte dello Stato nazionale di risolvere la cosiddetta Questione Meridionale.
Cantore in presa diretta della nascita dello Stato unitario e della Questione Meridionale, dei problemi ad esso connaturati e dei danni che il nuovo governo arrecò al Mezzogiorno ed in particolare alla Calabria, è stato il poeta Mastro Bruno Pelaggi (Serra San Bruno 15 settembre 1837 – 6 gennaio 1912) che visse quasi tutta la sua parabola esistenziale nel paese della Certosa.
Il “poeta – scalpellino” aveva imparato la vita alla severa scuola della crudezza e aveva improntato la sua esistenza ai principi della giustizia e dell’uguaglianza, assumendo il concetto del bene e del giusto quale regola inflessibile di condotta.
Come rilevato da Biagio Pelaia che ha curato “Li Stuori”, esaminando le liriche di Mastro Bruno è possibile rinvenire, in alcuni componimenti, concetti e principi omogenei. Pur non potendo parlare di pensiero sistematico, in quando il poeta scalpellino non ebbe una cultura letteraria né tantomeno filosofica, è possibile tuttavia parlare di una concezione etico-politica che caratterizza la maggior parte delle sue poesie e che ne fa un acuto osservatore e denunciatore della nascente Questione Meridionale.
Certo, non è possibile parlare di una “poetica politica” come frutto di una coscienza di classe.
Piuttosto, ad animare la penna del “poeta – scalpellino”, c’é un naturale “istinto di classe” frutto della consapevolezza che al mondo esistono due categorie di esseri umani, gli sfruttatori e, gli sfruttati, cui il poeta serrese sa di appartenere.
In Mastro Bruno, dunque, la Questione Meridionale, come sostenuto giustamente dallo studioso Biagio Pelaia, si manifesta non soltanto come testimonianza diretta, ma, soprattutto, come vicenda umana personalmente vissuta e sofferta.
Partendo dalla propria esperienza, Pelaggi matura riflessioni e considerazioni che saranno alla base della coscienza meridionalistica. Sebbene vi siano otto componimenti interamente dedicati al periodo monarchico-unitario, vi è un solo frammento, costituito da otto quartine, dal titolo “Quand’era giuvinottu”, in cui il poeta serrese tenta di cogliere, a posteriori, le differenze tra il regime borbonico e quello unitario.
Quand’era giuvinottu,/ jio mi ricuordu appena/ ca si dicia ca vena/ Cientumasi;/ di sira, ‘ntra li casi,
cu’ certi carvunari,/ pimmu ‘ndi dinnu mali/ dilli Borboni/ Ch’era ‘nu lazzaroni/ ‘n sigrietu si dicia;
c’ognunu non vulìa / mu parra forti, / picchì a sicura morti/ jia ‘ncuntru, o carciratu/e pue cadia malatu/ e si futtia./Tandu non capiscia;/però (mancu li cani!),/cu chist’atri suvrani/si dijuna.
‘N Calabria ormai la luna/Va sempi alla mancanza,/e non c’è cchiù spiranza/ca ‘ndargimu.
C’arriedi sempi jimu,/li mastri e li fatighj;/chissu lu capiscivi/non di mò;/Ca lu Guviernu vò
sulu pimmu ‘ndi spògghja,/ mu ‘ndi leva la vòggjia/ mu stacimu …
In questo frammento, nei versi iniziali, Mastro Bruno, ricorda uno dei tanti episodi della sua gioventù e riporta un piccolo squarcio dell’attività cospirativa che, verosimilmente, dovrebbe datarsi intorno al 1848, quando la propaganda antiborbonica era molto intensa. Cientumasi era il cospiratore, il ribelle. Ciò che emerge fin dai primi versi è la segretezza e la paura dell’attività cospiratrice pre-risorgimentale, cui, curiosamente, anche i piccoli centri come Serra San Bruno erano interessati. Il poeta, dopo aver descritto quest’attività, pone il confronto col regime unitario ed il dato di fatto emergente è sconvolgente.
Se durante il periodo borbonica, da un lato, la libertà, soprattutto quella di espressione e dissenso, era pressoché negata, col nuovo regime sabaudo le classi che potremmo definire “proletarie” vivono la fame e vengono sommerse da nuove tasse destinate a rimpinguare le casse dell’indebitato Stato piemontese. E’ noto agli storici, infatti, come le maestranze artigianali (meastranza “di la Serra”), che spesso erano rappresentate da veri e propri artisti, dopo l’unificazione entrarono in un periodo di crisi inarrestabile che ne comportò un lento e inesorabile processo di decadenza fino alla loro scomparsa.
Basta! – Simu ‘Taliani! / Gridamma lu Sissanta. (Ad Umberto I, vv. 69-70)
Le parole di Mastro Bruno sono emblematiche nell’esprimere la passione con cui anche i ceti proletari e più poveri avevano guardato all’unificazione. L’impresa dei Mille sembrava voler chiamare tutti gli italiani verso una meta comune. Ma fu un’illusione, dopo l’Unità, le divergenze, sociali ed economiche, riaffiorarono con maggiore crudezza.
In particolare, la nuova politica fiscale imposta dai piemontesi, obbligò il nuovo Stato e le classi sociali più deboli a farsi carico dei debiti portati in dote dal regno Sabaudo.
Sul popolo calabrese, dunque, si abbatté una serie infinita di tasse: la comunale e la provinciale, la tassa di famiglia e quella sul macinato, oltre all'inimmaginabile tassa di successione e all'impensabile leva obbligatoria. La gente del meridione, dopo aver vissuto l’illusione di essere stata riscattata dall’unità nazionale, dovette rassegnarsi nuovamente. Il Mezzogiorno patì l’abbandono non soltanto economico ma soprattutto sociale e morale.
Cosi Mastro Bruno, scrive al Re per esprimere la disperazione e solitudine dell’uomo meridionale, sfruttato e deriso dai potenti:
Picchì hai mu li nascundi / li gridi calabrisi/ Non pagamu li spisi/’guali atutti?/ Ma tu ti ‘ndi strafutti/ li deputati cchiùi:/duvi ‘ncappamma nui,/ povar’aggenti!
(Ad Umberrto I, vv. 97 – 104)
Ma non ricevendo alcuna risposta da Umberto I, decide di rivolgere il suo lamento al Padreterno, nella speranza che almeno il cielo si accorga della sofferenza che attanaglia il meridione:
Non vidi, o Patritiernu,/ lu mundu mu sdarrupi/ ché abitatu di lupi/ e piscicani?
(Lettera al Padreterno, vv 1- 4)
A nui ‘ndi scuorticaru/ li previti, l’avaru/ e lu Guviernu
(Lettera al Padreterno, vv 110 - 112)
In effetti, tra il 1865 ed il 1890 lo Stato unitario spese ingenti somme per l’acquisto di beni ecclesiastici e demaniali, che di fatto impedirono investimenti che avrebbero potuto ottimizzare l’agricoltura meridionale.
Alla fine Mastro Bruno Pelaggi, deluso ed amareggiato, preso dallo sconforto e sentendo tutte le sue forze svanire, decide di raccontare il suo tribolare alla luna, quale unica e impassibile spettatrice delle sue sofferenze, affidando al suo mutismo il compito di raccoglierle e portarle a riposare con se.
Essa è l'interlocutrice cui il poeta serrese rivolge i suoi lamenti, con la consapevolezza di non ottenere mai risposta, poiché essa rappresenta l'infinito, l'eterno e l'immortale, in altre parole ciò che un uomo non potrà mai essere.
Quantu’ agghjuttivi amaru/ ‘ntra ‘st’esistenza mia!/ Luna, si non niscia/quant’era mieggju!