Belfast e lo spirito dell'allodola
Ha un fascino sinistro, Belfast. Il fascino tipico di una città in cui hanno convissuto ansia di libertà e desiderio d’opprimere. Appena arrivi alla Victorian Station sembra una città come le altre. Gente che va, gente che viene. Passeggeri che aspettano, uomini e donne che si aggirano in attesa di mettersi in marcia verso la loro destinazione. Ma Belfast non è una città come le altre. Se lo fosse, uscendo dalla stazione ti dirigeresti verso il centro, andresti a vedere l’imponente City Hall, il palazzo vittoriano da cui passa la vita amministrativa della città. Ma Belfast non è una città per turisti, tutt’al più per curiosi. Così, uscendo dalla stazione, istintivamente prendi la strada alla tua sinistra e inizi a camminare. Nonostante la pioggia, incessante, ti fai più di un chilometro ed imbocchi la Shankill road, la strada che taglia trasversalmente il quartiere protestate. Pensare di trovare un quartiere normale sarebbe ingenuo. Dopo gli accordi di pace degli anni Novanta, la guerra è, forse, finita, ma la pace non è mai iniziata. Lo capisci vedendo il muro coperto dal filo spinato che impedisce di attraversare una strada. Lo capisci quando al primo murales, due “sentinelle” si avvicinano e con fare deciso ti chiedo che ci fai, perché fotografi. Lo capisci quando, memore della parole di un vecchio soldato prigioniero delle truppe britanniche che ti diceva “gli inglesi rispettano solo chi non ha paura”, senza abbassare gli occhi gli dici che sei un turista e loro replicano che se sei un turista devi farti accompagnare dai “black taxi”, gli unici autorizzati a portare i visitatori a Shankhill. Lo capisci quando rispondi che il turista lo fai a modo tuo ed uno dei due ti batte vigorosamente una mano sulla spalla ed augurandoti buona fortuna t’invita a visitare il quartiere seguendoti in maniera tutt’altro che discreta. Ogni casa ha un murales, ogni muro è la pagina di un libro. Un libro che parla di guerra, di lotte e di morti, tanti morti. Quanto l’atmosfera sia plumbea lo intuisci quando da sotto al plaid che copre buona parte del bagagliaio di una Mercedes vedi sbucare la canna di un fucile a pompa. Ti chiedi, quindi, cosa potesse essere il quartiere negli anni Settanta, nei giorni caldi del “Bloody Sunday” quando, a Londonderry, le forze paramilitari britanniche spararono sui manifestanti lasciando sul selciato 13 attivisti cattolici. Capisci che quello che sai, quello che hai letto sui libri è solo l’inizio. Non sembra vero, che in una città d’Europa possa esserci ancora un muro. Il muro a Belfast non è solo quello del “gate” che si chiude alle 15 e che preclude il passaggio ai pedoni ed agli automobilisti, che preclude l’accesso dal quartiere cattolico a quello protestante, il muro più alto è forse quello invisibile, costruito con l’odio ed il rancore. Perché la rabbia non passa ed il perdono si perde nella retorica delle frasi fatte dei discorsi ufficiali. Per capire quanto sia profondo il solco, basta seguire la Falls road, la strada che segna l’ingresso nel quartiere cattolico; su quella strada dove, a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro, sorgono i luoghi del ricordo e del dolore della comunità cattolica che vorrebbe l’indipendenza dell’Irlanda del Nord. E’ lì, nel “Garden of remembrance”, dove ci sono le steli che ricordano i morti irlandesi che leggi negli occhi senza lacrime di un padre il pianto per un figlio caduto mentre inseguiva un sogno. E’ lì che hai la misura di quanto sia vero che la pace non è l’assenza della guerra. Pochi metri più in là, sorge il murales che ritrae Bobby Sands, l’attivista morto, nelle prigioni britanniche, il 5 maggio del 1981 dopo sessantuno giorni di sciopero della fame, per aver voluto affermare un principio. Un principio di libertà diventato vacuo ed impalpabile nell’Europa 2.0 sommersa dal nichilismo. Di quella liberta che si concretizza nella capacità di credere in qualcosa, nel desiderio di difenderla, nella volontà di perseguirla, sembra non essere rimasta alcuna traccia. Perché ci sia la libertà, infatti, è necessario che ci sia lo spirito, lo spirito dell’allodola, quello di cui parla Bobby Sands nel suo diario, nel quale ha scritto: “Mio nonno una volta mi disse che imprigionare un’allodola è un delitto fra i più crudeli, perché è uno dei simboli più alti della libertà e felicità. Parlava spesso dello spirito dell’allodola, quando raccontava la storia di un uomo che ne aveva rinchiusa una in una piccola gabbia. L’allodola, soffrendo per la perdita della sua libertà, non cantava più, non aveva più nulla di cui essere felice. L’uomo che aveva commesso questa atrocità, come la chiamava mio nonno, voleva che l’allodola facesse quello che lui desiderava. Voleva che cantasse, che cantasse con tutto il cuore, che esaudisse i suoi desideri, che cambiasse il suo modo di essere per adattarsi ai suoi piaceri. L’allodola si rifiutò e l’uomo si arrabbiò e divenne violento. Egli cominciò a fare pressioni sull’allodola perché cantasse, ma non raggiunse alcun risultato. Allora fece di più. Coprì la gabbietta con uno straccio nero e le tolse la luce del sole. La fece soffrire di fame e la lasciò marcire in una sudicia gabbia, ma lei ancora rifiutò di sottomettersi. L’uomo l’ammazzò. L’allodola, come giustamente diceva mio nonno, aveva lo spirito della libertà e della resistenza. Voleva essere libera, e morì prima di sottomettersi al tiranno. Sento di avere qualcosa in comune con quell’allodola e con la sua tortura, la prigionia e alla fine l’assassinio. Lei aveva uno spirito che non si trova comunemente, nemmeno in mezzo a noi umani, cosiddetti esseri superiori”. Esseri superiori, il cui spirito, il più delle volte, più che a quello dell’allodola assomiglia a quello del coniglio, tutt’al più della pecora.
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