Locri calcio a 5: e se la mafia non c'entrasse nulla?
MI faccio interprete di numerosi commenti che in vario modo esprimono qualche perplessità sul caso delle fanciulle di Locri minacciate, elle o chi per esse, dalla mafia. O così dicono, e così subito ripetono il Governo nazionale, l’Amministrazione regionale, vari politici, e un mare di opinionisti politicamente corretti, e, consentitemi, piuttosto frettolosi. La grande stampa si è fiondata come avvoltoi sui cadaveri, e che cosa le è venuto a mente? Che si tratta della misoginia calabrese: eh, mi pare il famoso articolo della Chauoqui, oggi a rischio di galera vaticana! Secondo loro, la mafia non vuole che le ragazze… eh, amici miei, quant’è brutta l’ignoranza, se Repubblica ignora il matriarcato della Locri greca, e la poetessa Nosside eccetera. Tradizione mai interrotta: nel dubbio, v’informo che mia madre di Siderno, km 4 da Locri, giocava a calcio durante il Sabato fascista degli anni 1930. Gli antifascisti borbottavano, ma l’allora solo pittoresca e sparutissima mafia non trovò nulla di cui interessarsi al proposito. Intanto è stato universalmente deciso che le minacce alla squadra locrese sono di origine mafiosa. Così, alla grossa, senza uno straccio di indagini, senza una prova, senza che i minacciati siano stati interrogati da un giudice, da un maresciallo… E tutti gli antimafia sono solidali. Beati loro, che sono sempre così sicuri! Io invece non sono mai sicuro di nulla, anzi so che dubium initium sapientiae, cioè che è sempre meglio dubitare. Ciò è vero in genere, ma dovrebbe essere il minimo indispensabile, quando si tratta di reati e roba simile. Se io dico di essere minacciato, intanto devo sporgere denunzia; poi bisogna che aiuti le indagini, dichiarando come mai ritenga di essere minacciato, e da chi. Esempio: alcuni anni fa io subii il taglio proditorio di due gomme dell’auto. Siccome si sapeva in paese di un imbecille uso a questi scherzi, e che la cosa spiacevole era accaduta anche a vari concittadini apolitici e di indole più mite della mia, non mi sfiorò l’idea che fosse una minaccia o un’intimidazione; e mi limitai a invocare sul tristanzuolo un semestre ininterrotto di mal di denti: arài, in greco; defixio, in latino; jestima, in dialetto calabrese; e spero di cuore gli sia accaduto. Trattavasi, infatti, di mascalzoncello senza alcuna connotazione mafiosa o politica. Orbene, può darsi che le minacce siano genuine e mafiose, come può darsi siano frutto di un cretinetti qualsiasi, un mitomane, uno sfaccendato. Nel primo caso, bisogna assumere tutti i provvedimenti del caso; nel secondo, ci si ride sopra. Chi deve stabilire se è il primo o il secondo caso? Beh, la Magistratura, la Compagnia dei CC, il Commissariato di PS… Non certo i giornalisti o gli antimafia più o meno dilettanti o di mestiere, i quali non hanno gli strumenti e i metodi per compiere indagini ed emettere sentenze. Peggio, tutti questi estemporanei interventi rischiano di costituire un fosco polverone che copre ogni paesaggio chiaro e non chiaro. Per dirne una, se la minaccia si rivelasse un equivoco… e dico solo questo, la folla di ministri e sacerdoti e dotti e conferenzieri non sarà certo d’aiuto a un giudice che volesse impiparsene della retorica e fare solo il suo banalissimo dovere. Come fa, un giudice, ad assolvere, eventualmente, la mafia? Oppure a condannarla, s’intende: ma solo dopo le indagini. In dubiis, pro reo: non è garantismo peloso di recente invenzione, è un antichissimo principio di diritto romano. Intanto, in bocca al lupo alle fanciulle calciatrici, epigone, senza saperlo, della squadra di mia madre.
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