Roma Capitale, caso Casamonica: il vero scandalo non è il funerale

Continua, ancora, a farsi sentire la lunga eco del folkloristico funerale di Vittorio Casamonica, il boss dell’omonimo clan che spadroneggia nella Capitale. Al di là delle indignazioni, vere o presunte, delle prese di posizione a posteriori, in quello che appare sempre più come il paese di Pulcinella, finirà tutto con il risolversi con un nulla di fatto. Ruzzolerà, forse, la testa di qualche funzionario senza santi in paradiso, si darà in pasto all’opinione pubblica il nome di qualche insignificante mezzamanica, mentre i veri responsabili rimarranno tutti abbarbicati alle loro poltrone. Tra qualche giorno, poi, calerà il sipario ed i protagonisti della vicenda ritorneranno, tranquillamente, alle loro occupazioni. L’Italia, del resto, è un Paese singolare anche perché la scelta delle notizie da parte degli organi d’informazione più che dal ragionamento è guidata dall’emotività. Come spiegare altrimenti lo sconcerto seguito alla pacchiana cerimonia funebre. A suscitare scandalo, infatti, non avrebbe dovuto essere tanto il funerale, quanto la vita del boss. A far indignare non avrebbe dovuto essere tanto la libertà di movimento garantita al corteo funebre, quanto la libertà di trafficare concessa a quella che viene considerata una delle più potenti organizzazioni criminali del Lazio. Bisognerebbe cercarli i responsabili, bisognerebbe far saltare fuori i nomi, ma di coloro i quali hanno permesso ad una famiglia di “cavallari” sinti di diventare, in poco più di quarant’anni,  padrona di Roma. Com’è stato possibile che i Casamonica abbiano potuto acquistare potere e ricchezze senza che nessuno se ne sia mai reso conto? Chi ha fornito le coperture, non solo politiche, che hanno permesso di costruire un impero economico quantificato dalla Dia in oltre novanta milioni di euro? Com’è possibile, in un paese normale, che un clan di “nomadi” conquisti la Capitale? Più che individuare i nomi di chi non ha impedito lo svolgimento del funerale, sarebbe necessario far conoscere agli italiani onesti le misure che il Governo e la magistratura intendono assumere per sradicare la mala pianta che avvelena Roma. I cittadini comuni, quelli che se non pagano una multa si trovano a casa gli esattori di Equitalia, sarebbero felici di sapere che la legge è sempre inflessibile, che non esistono sacche d’immunità, che non ci sono territori franchi in cui lo Stato ha rinunciato ad esercitare la propria potestà. Occorre fare chiarezza su quanto accaduto giovedì scorso, ma quel che più conta è fare pulizia, aggredire i patrimoni, espropriare ai boss, agli affiliati ed ai loro prestanome i beni incompatibili con le loro dichiarazioni dei redditi. La scure della legalità dovrebbe, infine, abbattersi impietosamente anche contro i servitori dello Stato che hanno favorito ed assecondato la crescita dei poteri criminali. Più che con la galera, costoro dovrebbero essere puniti con la perdita del diritto di cittadinanza. Misure incisive e pene esemplari, per le quali servirebbe una classe politica seria, onesta ed animata da passione civile. L’esatto opposto di quella, che nella gran parte dei casi, governa il Paese.  

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Roma Capitale, caso Casamonica: i prefetti non sono tutti uguali

Il prefetto di Perugia è stato destituito per aver detto un po’ troppo alla paesana quello che pensiamo tutti ed è ovvio: se un ragazzo si droga o altro, c’è una colpa della famiglia. Insomma, non è stato politicamente corretto.  Il prefetto di Roma, Gabrielli, ha dichiarato di non aver saputo che un pregiudicato defunto sarebbe stato onorato di esequie, e fin qui nulla di strano, e, dopo il rito, sarebbe stato caricato sopra una carrozza a tre coppie di cavalli, con banda al seguito (nel senso di banda musicale), e banda in tutti gli altri i sensi, mentre un elicottero lanciava nuvole di fiori sopra il feretro. Di questa bazzecola non si erano accorti sindaco, vigili, polizie varie, comandi, questore, e, per tutti, il prefetto, il quale è nella provincia il supremo rappresentante dello Stato e responsabile dell’ordine pubblico; e non in una provincia sperduta, ma nella capitale. Capitale che dall’altro ieri fa ridere tutti i principali giornali del mondo civile.  Non credo che ci sia alcun dolo; c’è di peggio, c’è inettitudine; e un inetto è ancora più pericoloso. Attenzione, inetto dal latino ineptus, derivato da un “in” negativo, e “aptus”: dunque, non adatto alla funzione che esercita. Quello che ha fatto il Gabrielli, anzi, che non ha fatto, è mille volte più grave di una frase in mezzo napoletano: è non aver saputo che una banda musicale e una banda di zingari occupavano il bel mezzo dell’Urbe; o, avendolo saputo, non averlo impedito. In uno Stato serio, sarebbe già in viaggio il più lontano possibile da Roma e dalla sua provincia: destituito. Evidente è che nemmeno i prefetti sono tutti uguali.

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