Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando giorno dopo giorno. A determinarne la caduta non sarà, come banalmente si sente ripetere, la pandemia da Covid.
Piuttosto, a dare le nuove coordinate al mondo che sarà, è qualcosa di molto più arcaico e conosciuto: la volontà di potenza.
L’espressione, riformulata in chiave filosofica da Nietzsche, è alla base della costruzione dei grandi imperi, ovvero degli spazi vitali che ogni popolo ha cercato di disegnare e conquistare.
Senza scomodare il Lebensraum e le dottrine di Haushofer, i popoli da sempre tendono a costruire la loro storia seguendo il medesimo filo conduttore.
Un filo rimasto latente nel mondo congelato dalla Guerra Fredda, ma ritornato oggi più protagonista che mai della corsa alla creazione degli spazi geopolitici del mondo che verrà.
Una corsa dalla quale l’Europa, sempre più vittima del suo pensiero debole, è destinata ad essere tagliata fuori.
Ciò che è accaduto negli ultimi anni, ma anche nelle ultime settimane, evidenzia in maniera inesorabile l’immobilismo del Vecchio continente, ormai rassegnato a portare i panni del gigante riluttante.
Un immobilismo colpevole, soprattutto in considerazione di ciò che sta avvenendo nel “Mediterraneo allargato”, ovvero lo spazio geografico che coinvolge aree territoriali e marittime che hanno nel “Mare Nostrum” il loro baricentro.
Lo spazio vuoto, lasciato dal riposizionamento degli interessi Usa nell’area del Pacifico, avrebbe dovuto essere coperto dall’Unione europea o dai Paesi del suo fronte sud che hanno una naturale proiezione nel Mediterraneo.
E’ invece, l’ignavia dell’Italia e il velleitarismo francese, hanno lasciato campo libero a vecchi e nuovi attori.
I conflitti degli ultimi anni, dalla Siria alla Libia, per finire al Nagorno – Karaback, ci dicono che i protagonisti della costruzione del nuovo ordine regionale sono già all’opera, impegnati a piantare bandierine nelle loro, sempre più ampie, aree d’influenza.
Da una parte, la Russia che, metabolizzate le conseguenze delle sanzioni imposte dall’Occidente dopo l’inizio della guerra nel Donbass (Ucraina) ed il vittorioso colpo di mano in Crimea, ha portato la sua influenza nel Mediterraneo ad un livello mai conosciuto neppure ai tempi dell’Unione sovietica.
Pur mantenendo un profilo basso, Putin è riuscito ad incunearsi in un settore strategico sia per le rotte commerciali – presenti e future – che per quelle energetiche.
La Russia, una volta consolidato il potere di Assad in Siria - dove con l’ampliamento della base navale di Tartus rafforzerà ulteriormente la propria presenza in un tratto di mare nel quale, a breve, i ricchi giacimenti d’idrocarburi presenti, porteranno al parossismo le linee di tensione già in atto - ha rivolto la propria attenzione verso un altro settore strategico: la Libia.
In quella che fu la “Quarta sponda”, il nuovo “zar” del Cremlino ha saggiamente occupato l’unica casella allora disponibile, quella accanto al generale Haftar, attorno al quale si sono coagulati gli interessi di altri attori, dall’Egitto agli Emirati Arabi - con i quali la Russia ha un interessato dialogo in atto. Nelle intenzioni di Mosca, infatti, avere, tramite i contractors del "Gruppo Wagner", gli scarponi in Libia non significa soltanto piazzare un’ulteriore bandierina nel Mediterraneo meridionale, bensì aprirsi una porta verso il Maghreb e buona parte dell’Africa sub sahariana.
Il disegno di Mosca non è avventato, né estemporaneo, piuttosto risponde ad una precisa e calcolata strategia finalizzata a presidiare le più importanti rotte marittime, energetiche e commerciali.
Non è un caso, che una volta consolidata la presenza nel Mediterraneo, Putin abbia rivolto l’attenzione verso un bacino cruciale del “Mediterraneo allargato”, ovvero il Mar Rosso. Proprio nei giorni scorsi, infatti, lo “zar” ha annunciato la stipula di un accordo con il Sudan, grazie al quale la Marina russa si doterà di una base navale non lontano da Port Sudan, a metà strada dalle porte d’accesso al Mediterraneo (Suez) ed al Golfo di Aden e quindi all’oceano Indiano (lo Stretto di Bab el-Mandeb).
L’ultimo intervento, in ordine di tempo, Putin lo ha fatto registrare nel suo “giardino di casa”, ovvero in Nagorno-Karback, dove ha fatto da sensale, insieme al presidente turco Erdogan, per l’accordo di pace tra Armenia e Azerbaigian.
Un trattato sul quale hanno avuto un peso decisivo, l’abilità e la raffinata astuzia di Putin, il quale ha atteso, per intervenire, che l’Armenia fosse irrimediabilmente con le spalle al muro, con il risultato che la pace draconiana subita, ha indotto gli armeni e porsi definitivamente sotto l’ombrello protettivo di Mosca.
Al tavolo della pace, Putin, come spesso capita ultimamente, ha incrociato l’alleato-rivale Erdogan.
Proprio il presidente turco è l’altro protagonista che, in maniera sempre più assertiva, sta proiettando Ankara ad interpretare il ruolo di potenza regionale.
Un ruolo a tutto campo che ha indotto la Turchia a ripensare se stessa in chiave neo ottomana.
Una strategia imperniata sulla dottrina del “Mavi Vatam” o della “Patria Blu” in virtù della quale Ankara si propone di estendere il controllo sul mare, per poi imporre la propria influenza sulle risorse energetiche e sulle rotte commerciali.
Un disegno sostenuto anche grazie all’attività della “Fratellanza musulmana” che ha permesso alla Turchia di allargare il proprio raggio d’azione con la creazione di una base militare in Qatar e di un punto d’appoggio navale nel porto di Suakin, in Sudan.
La penetrazione turca, tutt’altro che unidirezionale, ha fatto breccia anche nei Balcani - non solo in Bosnia-Erzegovina, Albania e Kosovo, ma anche in Serbia – dove la “Strategia profonda” ha portato Ankara ad essere il maggior investitore dopo Unione europea, Cina e Russia.
Molto più rumorosa, invece, la partita che Erdogan ha giocato e continua a giocare nello scacchiere siriano, dove la Turchia impiega una straordinaria massa di manovra composta da integralisti islamici e siriani turcomanni.
La stessa massa di manovra è stata spregiudicatamente gettata in campo in Libia, dove l’appoggio turco si è rivelato decisivo per evitare la caduta di Tripoli, insidiata dalle milizie del generale Haftar.
Un impegno che, grazie anche all’appoggio della “Fratellanza musulmani” che supporta Fayez Al Sarraj, ha già fatto passare Erdogan all’incasso, ottenendo la strategia base aerea di “al-Watiya” e quella navale di Misurata. Anche in Libia, così come accaduto in Somalia, a fare le spese dell’attivismo turco è stata l’Italia, la cui unica politica estera, in questi anni, è stata quella portata avanti dalla diplomazia informale dell’Eni.
La proiezione turca, come dimostra il recente conflitto azero-armeno per il controllo del Nagorno-Karabakh, non si limita al solo Mediterraneo.
Proprio nel Caucaso l’intervento indiretto di Ankara – con i soliti mercenari islamici e con cospicue forniture militari – si è rivelato decisivo per ribaltare l’esito della guerra combattuta nei primi anni Novanta.
A rendere possibile la vittoria azera sono stati, soprattutto, i Tb2, i temibili droni di costruzione turca con i quali sono state decimate le forze corazzate e le linee logistiche armene.
Un successo che ha permesso, ancora una volta, al “Sultano” di allargare la sua sfera d’influenza e sedere ad un tavolo le cui decisioni sono state apprese dall’Unione europea solo attraverso i giornali.
L’immobilismo europeo, sui diversi scacchieri, forse risente di un concezione ormai superata.
L’idea che sia sufficiente produrre beni per conquistare e mantenere i mercati appartiene, infatti, al mondo che è stato, non a quello che sarà. Il vantaggio competitivo dato dalla tecnica ha permesso all’Europa, complice l’ombrello militare americano, di coltivare il proprio import-export senza doversi preoccupare delle incombenze geopolitiche.
Oggi, invece, quel vantaggio competitivo, peraltro sempre più ridimensionato, non basta più a conquistare e mantenere i mercati. Lo hanno ben capito proprio i Paesi che, come Russia e Turchia, hanno la consapevolezza che chi non fa la Storia è destinato a subirla.