Viviamo nel tempo dei paradossi, delle assurde ed inesplicabili contraddizioni. Ad esempio, proprio nell’era in cui la tecnologia offre un’apparente illimitata possibilità di preservare il passato, siamo costretti a registrare una grande propensione a dimenticare. La nostra, infatti, nonostante il gran numero di database, è un’età sulla quale aleggia costantemente lo spettro dell’oblio. Del resto, quella in cui viviamo è l’epoca della velocità, non della memoria. Quanto le due cose non possano coesistere lo coglie magistralmente Milan Kundera quando, in un suo romanzo parla del “legame segreto” che intercorre “fra lentezza e memoria, fra velocità e oblio». Lo scrittore boemo, nella “Lentezza”, tratteggia la nostra epoca «ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio – scrive - che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di sé stessa, disgustata da sé stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria». Non è un caso, che la nostra, sia un’esistenza segnata più dai cinguettii di twitter, che dai poemi o dai trattati. Siamo quotidianamente circondati da una fitta trama di notizie, da informazioni che non diventeranno mai storia. Episodi clamorosi, sui quali l’enfasi mediatica esercita la propria sconfinata energia, durano solo poche ore, prima di finire nelle fauci del demone implacabile ed invisibile della “velocità”. Un demone al quale non sfugge niente e nessuno, neppure le piccole comunità, nelle quali per secoli il racconto orale ha avuto la funzione di trasformare i fatti in storie senza tempo. Ciò che spesso manca è la memoria a breve termine. Il vissuto quotidiano scivola via senza entrare nel patrimonio mnemonico individuale e collettivo. A volte però, esercitare il ricordo diventa una forma di dovere. Ad oltre trent’anni di distanza dalla sua misteriosa sparizione viene da chiedersi, ad esempio, dove sia finita quella che per tutti i serresi era “la Spera randi”, ovvero il magnifico ostensorio trafugato la notte del 18 novembre 1982 e mai più ritrovato. Il furto, all’epoca, lasciò inebetita l’intera cittadina della Certosa. Oggi, invece, non se ne parla neppure ed il ricordo appare sempre più flebile. Eppure, non si tratta di un’opera minore. L’ostensorio rappresentava una delle più significative opere d’arte calabresi. Era stato realizzato a Napoli, nel 1820, presso la fonderia Russo, dall’artista serrese Domenico Barillari. Un autentico capolavoro, capace di suscitare l’ammirazione del “Presidente della Accademia delle Belle Arti e disegno D. Costanzo Angelici il quale – secondo il resoconto fatto per la “Platea”, da don Domenico Pisani, nel vedere il modello avrebbe manifestato - la grande sua meraviglia dicendo: non essere credibile essere quella Opra, parto d’Ingegno Calabrese”. Un oggetto artisticamente imponente, del quale, Domenico Pisani, in un breve saggio dal titolo “Vita e opere di Domenico Barillari” ha scritto: “l’opera è curata in ogni dettaglio e si presenta ricca di particolari: il piede e decorato da foglie di acanto che si accartocciano e da un tralcio di vite che si insinua intorno alla base e si ripete più in alto. Una perlinatura dorata scorre parallela ad un serto di alloro disposto in fascia mentre, al di sopra, volute fitomorfe fanno da base, sul recto, a tre statuine a tutto tondo che rappresentano la Fede, la Speranza e la Carità e, sul verso, all’Agnus Dei”. Il suo grado di perfezione aveva indotto gli artisti serresi del tempo a diffondere la leggenda secondo la quale l’autore, per evitarne la riproduzione, aveva gettato in mare il modello ligneo. Alto 112 centimetri e largo 40, del peso di 33 libbre, quasi sei chili, l’ostensorio venne trafugato dalla chiesa dell’Addolorata, da dove, oltre alla “Spera”, i ladri portarono via una pisside, dei calici in argento, un crocifisso in avorio ed una statuetta della Madonna. A favorire l’opera dei profanatori, la presenza, all’epoca dei fatti, di una distesa di piccoli orti collocata alle spalle della Chiesa. Dal luogo in cui oggi sorge il parcheggio di piazza Tozzo, i malviventi poterono introdursi indisturbati nell’edificio di culto, dopo aver segato le sbarre di una finestra che dava nella sacrestia. Sul posto, i carabinieri rinvennero, numerose cicche di sigaretta, segno che l’operazione andò avanti per diverse ore, alcuni seghetti, una pinza e un paio di cacciavite. A dispetto del riscatto offerto, nell’immediatezza dell’evento, dalla confraternita dell’Addolorata, della “Spera” non si è saputo più nulla. Le sue tracce sembrano essere svanite nel nulla. Eppure, all’epoca, molti, ritenevano che l’ostensorio non avesse mai lasciato Serra e si trovasse custodito in un luogo sicuro, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo.