Milano, un’esplosione, morti, feriti. Un città attonita, alla ricerca di un perché. La giustizia non riesce a fare giustizia. Arresti, scarcerazioni, servizi segreti, sicofanti e delatori; innocenti in galera, colpevoli a piede libero. Anni d’indagini, ma nessun responsabile. Un mistero, un autentico buco nero. Una lista di fatti che sulle prime sembra ricondurre alla strage di piazza Fontana. Eppure quella storia, ormai conosciuta, in tutti i suoi risvolti processuali, ha un precedente, meno noto, ma non per questo meno cruento e doloroso. Una vicenda sinistra stranamente consegnata all’oblio. I fatti. Il 12 aprile 1928, Milano si sveglia rischiarata da un tiepido sole primaverile. La città è in fermento, per le 9,45 è atteso l’arrivo di Sua Maestà il re d’Italia, Vittorio Emanuele III. Motivo della visita, l’inaugurazione della IX Fiera Esposizione. I milanesi accorrono in massa. Ben presto, però, il clima di festa si tramuta in tragedia. Non sono ancora le dieci ed un sordo rimbombo costringe il corteo reale ad una inopinata deviazione. Il sovrano apprende il motivo dell’improvviso mutamento di programma solamente una volta giunto a destinazione. Lungo il percorso stabilito, al n. 18 di piazzale Giulio Cesare, il fumo denso e acre si appena diradato quando i superstiti ed i soccorritori assistono ad uno spettacolo da tregenda. Sul selciato, con le carni dilaniate dalle schegge, più di cento persone. Alcune gemono, altre piangono, altre non si muovono più. I morti, alla fine, saranno 20, 100 i feriti gravi ed i mutilati. Che cos’é successo? Approfittando del trambusto dei preparativi, qualcuno, ha aperto un lampione in ghisa e vi ha collocato al suo interno un ordigno congegnato per uccidere. A compiere l’azione sono stati dei professionisti. Come scriverà nella sua relazione, il tenente colonnello Mario Grosso, il perito nominato dalla procura, “l’idea di trasformare il basamento del fanale in una vera e propria granata, è maturata nella mente di uno o più individui che hanno ponderato e studiato bene il sistema e che denotano di possedere la tendenza a congegnare le cose in modo da essere sicuri del fatto loro”. Fin dall’inizio le indagini vengono coordinate dal capo della polizia, Arturo Bocchini. A Milano, dal 1927 a capo dell’Ispettorato generale di polizia, opera Francesco Nudi che, nelle indagini, assumerà un ruolo da protagonista. Gli inquirenti non tralasciano nessuna pista. Bocchini dispone di indagare anche sulle associazioni jugoslave; un filone d’indagine interesserà alcuni esuli armeni, relegati in Puglia, a causa del genocidio perpetrato ai loro danni dalle truppe turche nel corso della Prima guerra mondiale. Come per la bomba alla banca dell’Agricoltura, inizialmente la pista più accreditata sembra essere quella anarchica. Un’ipotesi suffragata da un precedente. Il 23 marzo 1921 alcuni militanti anarchici si erano resi responsabili della strage al teatro Diana. L’attentato, organizzato per assassinare il questore Gatti, considerato il persecutore di Enrico Malatesta, aveva causato la morte di 17 persone ed il ferimento di altre 60. Scartata l’ipotesi anarchica, le indagini si concentreranno sul partito comunista. A questo punto, l’attentato alla fiera conoscerà il suo Valpreda. Romolo Tranquilli, fratello minore del dirigente comunista Secondino, che diverrà, in seguito, noto con lo pseudonimo di Ignazio Silone. Rivelatasi infondata anche la pista comunista, gli inquirenti si indirizzano, dapprima sul gruppo “Pietre” di Lellio Basso, in un secondo momento su alcuni militanti di Giustizia e Libertà. E proprio sul movimento, fondato da Carlo Rosselli, si condenseranno i maggiori sospetti. In particolare, anche grazie alla spiata di un delatore, Carlo Del Re, finiranno nella rete della polizia esponenti di primo piano come: Ernesto Rossi, Riccardo Bauer e Vincenzo Calace. Ad avvalorare il coinvolgimento di esponenti di Gl contribuiranno, tra l’altro, due fatti. Il primo, consumatosi il 15 maggio 1931, quando, alla vigilia del processo al gruppo milanese di Gl, verranno recapitati due pacchi bomba alle sedi del Popolo d’Italia e del Corriere della Sera. Il secondo si consumerà, invece, il 2 luglio dello stesso anno, quando alla stazione di Roma Tiburtina una deflagrazione investe ed uccide due addetti al controllo merci. A causare l’esplosione un baule proveniente dalla Francia, il paese che ospita il maggior numero di fuorusciti. Tra giugno e settembre verranno messi a segno ben dodici attentati in tre diverse città, Genova, Torino, Bologna. Lo stillicidio verrà fermato solamente ai primi di settembre, quando in un appartamento, del capoluogo ligure, verrà arrestato Domenico Bovone, trovato in possesso di un ingente quantitativo di esplosivo. In seguito all’arresto riprende vigore l’ipotesi che conduce a Giustizia e libertà. Il maggior indiziato diviene, quindi, Dante Fornasari, considerato, tra l’altro, autore di un attentato perpetrato ai danni dell’Arcivescovado di Milano il 28 dicembre 1928. L’inchiesta che coinvolge anche Calace, Bauer, Rossi, Poloni e Giopp momentaneamente si arresta. Le indagini ricevono nuovo impulso nel 1935, ma si arenano subito dopo. Alla caduta del Fascismo si prova, ancora una volta, a fare luce sulla vicenda. Sul banco degli imputati sempre gli stessi esponenti di Giustizia e Libertà. Poi l’oblio, il silenzio. A provare a riempire un vuoto storiografico durato più di mezzo secolo, qualche anno addietro è uscito un libro, “Attentato alla Fiera”, nel quale l’autore, Carlo Giacchin, interrogandosi sulle cause del lungo silenzio, scrive: “ La risposta, probabilmente, è più semplice, di quanto si possa pensare. E’ la paura della verità. La paura di scoprire che, dietro alla bomba di piazzale Giulio Cesare, ci fosse una verità imbarazzante. Imbarazzante perché, al di là delle dichiarazioni, la parte politica che si ispirava all’antifascismo di Giustizia e Libertà temeva di scoprire un qualche suo coinvolgimento”. Vittime senza giustizia, quindi, per paura della verità. Un’altra, forse l’ultima, analogia con la strage di piazza Fontana.