I “Vascelli dei venti”, le mongolfiere giapponesi all’attacco dell’America

Il 5 maggio 1945 è una normale domenica. Il reverendo Archin Mitchel, sua moglie Elsie Winters e cinque ragazzi tra gli 11 e i 13 anni che frequentano la parrocchia, ne approfittano per fare un pic-nic nella foresta di Gearhat Montain, non lontano da Bly, in Oregon. Giunti a destinazione, mentre il reverendo si attarda a parcheggiare l’autobus, i ragazzi e la loro accompagnatrice s’incamminano su un sentiero. Lungo il tragitto s’imbattono in uno strano oggetto e decidono di raccoglierlo. Segue una terrificante esplosione che squarcia il silenzio in cui è ancora immerso il bosco. Il reverendo Mitchel si precipita, la scena che gli si para innanzi è agghiacciante. Al suolo, straziati dalla deflagrazione, giacciono i cadaveri della moglie ventiseienne e dei cinque ragazzi. Nonostante lo shock, riesce a chiedere aiuto. Insieme allo sceriffo, arrivano militari, polizia federale e servizi segreti.

A provocare la strage non è stato un oggetto qualsiasi, ma una bomba giapponese. Senza portaerei in grado di attraversare il Pacifico e con il progetto del primo bombardiere a largo raggio ancora sulla carta, i nipponici, in teoria, non avrebbero le capacità logistiche per colpire il suolo americano. Quello che a molti sembra un enigma, tale non è, almeno per i militari che, da qualche mese, sono in allarme per alcune esplosioni legate a ciò che nel primo numero del 1945, la rivista Newsweek aveva definito il “Balloon mistery”. Un mistero per molti destinato a rimanere tale per effetto della censura. I cittadini, infatti, non devono sapere che l’America e sotto attacco a casa propria. Dietro al “Balloon mistery” ci sono, infatti, i giapponesi che, il 3 novembre 1944, hanno dato l’abbrivio all’operazione “Fu-Go” con l’impiego, su larga scala, della prima arma intercontinentale della storia. La “nuova” arma, battezzata “Vascello del vento”, non ha niente in comune con le V1 e le V2, i razzi tedeschi usati per attaccare l’Inghilterra. Lo strumento impiegato dai giapponesi è, apparentemente, rudimentale, ma per poco non cambia l’esito della guerra. La loro arma segreta è una tutt’altro che banale mongolfiera. L’operazione è stata inizialmente pensata per lavare l’onta subita il 18 aprile 1942 con il raid “Doolittle”, quando 16 B-25 decollati dalla portaerei Hornet erano riusciti a bombardare Tokyo. L’incursione, irrilevante sotto il profilo militare, rappresentò un duro colpo per i giapponesi che ritenevano di non poter essere colpiti sul territorio metropolitano. Per rispondere all’affronto, il 9 settembre 1942, un piccolo idrovolante portato a ridosso della costa americana da un sottomarino, lancia bombe incendiarie sul Monte Emily, in Oregon. Non può bastare. Lo stato maggiore nipponico vuole un’arma in grado di colpire gli Stati Uniti con regolarità. Qualcuno, forse pensa all’operazione “Outwad”, con la quale gli inglesi hanno lanciato contro la Germania nazista decine di palloni armati di bombe incendiarie. Tuttavia, l’impresa di far viaggiare per oltre 6 mila chilometri una mongolfiera è piuttosto complessa. I giapponesi, però, non partono da zero. Nel 1933, infatti, hanno già studiato la possibilità d’impiegare un pallone a fini bellici. Ad occuparsene era stato il tenente generale Reikichi Tada, del Japanese military scientific laboratory. Interrotto nel 1935, il progetto viene rispolverato dal generale Sueyoshi Kusaba e dal maggiore Kiyoshi Tanaka del 9° Istituto di ricerca tecnica militare.

Il primo prototipo è testato nel marzo del 1943, quando un pallone di 6 metri di diametro attraversa il Giappone, percorrendo i mille chilometri che separano la costa orientale da quella occidentale. Il lancio è un successo. L’idea iniziale prevede, infatti, che la mongolfiera venga portata da un sottomarino a circa mille chilometri dalla costa Usa, gonfiato sul ponte e lanciato, previa attivazione del timer per il rilascio di una bomba. Per dare operatività al progetto, tre sommergibili vengono inviati nell’arsenale di Kure per essere sottoposti alle necessarie modifiche.

I lavori sono ad uno stadio avanzato, quando vengono repentinamente interrotti per destinare i battelli al rifornimento delle truppe sparse nell’immenso teatro del Pacifico. Il progetto, però, non viene accantonato. I risultati incoraggianti dei test hanno fatto nascere un’idea ancor più ambiziosa: sviluppare un pallone in grado di affrontare in autonomia l’intero volo intercontinentale. Dal 9° Istituto, si rivolgono all’Osservatorio meteorologico centrale di Tokyo, diretto dal dottor Arakawa, per sapere se esistono venti in grado di spingere una mongolfiera fin sulle coste Usa. I metereologi sono a conoscenza della presenza di una corrente che, nei mesi invernali, soffia sul Giappone tra i 2 ed i 300 Km/h ad un’altitudine di circa 12 Km. Ciò che è del tutto inesplorato, è il comportamento del vento sul Pacifico. Parte, quindi, uno studio che coinvolge sette stazioni meteo e alcune navi incaricate delle osservazioni in mare. Arakawa e il suo staff scoprono i “Fiumi d’aria in rapido movimento" - più tardi ribattezzati "Correnti a getto" - che, tra ottobre e marzo, spirano sul Pacifico al di sopra dei nove chilometri d’altitudine. I dati vengono suffragati dai risultati raccolti da 200 palloni meteo lanciati durante l'inverno 1943/44. A questo punto, gli ingegneri iniziano a lavorare al progetto ancor più alacremente. Gli ostacoli da superare sono molti, a partire da come far rimane in quota la mongolfiera durante la lunga traversata. L’idrogeno usato per gonfiare le sfere è piuttosto instabile. Di giorno, quando la temperatura supera i 30° il pallone rischia di prendere quota ed esplodere. La notte, invece, quando la temperatura scende anche sotto i 50°, la pressione atmosferica si abbassa, il gas si comprime ed il pallone inizia a scendere. Problemi di non poco conto, superati dal maggiore Otsuki, del Noborito research institute, con una soluzione brillante, ovvero una ruota d’alluminio con un dispositivo dotato d’altimetro che rilascia il gas quando il pallone supera gli 11 Km e libera la zavorra quando scende sotto i nove. Una volta caduti i 32 sacchi necessari per completare la traversata, un automatismo sgancia la bomba. La soluzione, efficace, ma troppo pesante, richiede un pallone più grande. I tecnici realizzano, quindi, una mongolfiera di dieci metri di diametro, costruita con carta di gelso tenuta insieme da un collante ricavato da un tubero, il konnyaku-nori. In vista dell’operazione, l’esercito allestisce un apposito Reggimento composto da 2.800 uomini, agli ordini del Colonnello Inoue. Le zone di lancio vengono individuate sulla costa orientale dell’isola di Honshu.

L’ora “X”, scatta alle 5 del 3 novembre, il giorno in cui è nato l’ex Imperatore Meiji. Il lancio della prima arma intercontinentale della storia è accompagnato dal favore del vento. La notte del 4 novembre, infatti, l’equipaggio di una motovedetta della Us Navy ripesca, a circa 60 miglia dalla California, uno strano oggetto dotato di ricetrasmittente. Gli esperti, dopo un primo sommario esame, ritengono si tratti del frammento di un pallone meteo. Nei giorni successivi, però, sono segnalati ulteriori ritrovamenti e alcune misteriose esplosioni. L’11 dicembre, ad esempio, due taglialegna trovano i resti di un pallone dotato di bomba incendiaria a Kalispell, nel Montana, a 475 miglia aree dalla costa del Pacifico. Il 19, invece, una bomba provoca un enorme cratere a Thermopolis, nel Wyyoming. Della vicenda iniziano, quindi, ad occuparsi Fbi e militari. A preoccupare sono soprattutto le bombe incendiarie che potrebbero devastare le regioni forestali lungo la costa occidentale. Per scongiurare il pericolo, viene elaborato il "Firefly project" con il pronto impiego di tremila soldati e la partecipazione della Fourth air force in funzione anti incendio. Quanto gli Stati Uniti prendano sul serio la vicenda, lo dimostra proprio la riattivazione della Fourth air force, ovvero l’unità incaricata della difesa aerea della costa occidentale, posta in riserva nel 1943 con il venir meno del pericolo di un attacco. Inoltre, per scongiurare le conseguenza di un eventuale uso di armi biologiche viene attivato il “Lightning project”, con il coinvolgimento del Dipartimento dell’Agricoltura, incaricato di raccogliere eventuali segnalazioni relative a strane malattie al bestiame o alle colture. Un timore, si scoprirà nel dopoguerra, del tutto infondato, poiché a Tokyo non hanno mai pensato d’impiegare armi non convenzionali. Identificato il pericolo, gli americani devono fare i conti con un altro rompicapo, ovvero la provenienza delle mongolfiere. Inizialmente, ipotizzano siano lanciate da sommergibili in prossimità della costa. Successivamente, sospettano possano essere opera di prigionieri giapponesi rinchiusi nei campi di concentramento della West coast.

In attesa di scoprire l’arcano, le autorità, preoccupate dalle conseguenze del primo attacco aereo della storia subito “at home”, impongono la censura e il 4 gennaio 1945 danno disposizioni affinché non sia data alcuna notizia sulle esplosioni provocate dai palloni. Nel frattempo, viene analizzano il materiale recuperato. Tessera dopo tessera, partendo dal dettaglio più banale, gli esperti riescono a ricomporre il mosaico. A dare la risposta definitiva sulla provenienza dei palloni, sarà l'Us Geological survey, il cui capo mineralogista, Clarence Ross, analizzando la composizione della sabbia contenuta nella zavorra, scopre la presenza di molluschi e organismi microscopici presenti sulla sponda orientale dell’isola di Honshu. I risultati vengono comparati con quelli elaborati dai geologi canadesi i quali, nella zavorra di una mongolfiera caduta sul loro territorio, hanno trovato sabbia prelevata nelle vicinanze di un altoforno. A fugare qualunque dubbio, saranno le ricognizioni fotografiche condotte nelle vicinanze di Ichinomiya, non lontano da Tokyo, dove vengono individuati due dei tre impianti impiegati nella produzione dell’idrogeno destinato ai “Vascelli dei venti”. Parte quindi una campagna aerea che nell’aprile del 1945, culmina nella distruzione di entrambi i siti.

Solo poche settimane prima, una mongolfiera era stata sul punto di cambiare, se non il corso della guerra, sicuramente il suo l’epilogo. Il 10 marzo, infatti, una bomba incendiaria sganciata da un pallone era riuscita a mandare in tilt la centrale nucleare di Hanford, dove, dal dicembre 1944, si produceva il plutonio utilizzato per la costruzione della bomba destinata a Nagasaki. A scongiurare la fusione e quindi l’esplosione dei due reattori, fu il meccanismo di sicurezza che, seppur non ancora testato, entrò regolarmente in funzione, risparmiando agli Stati Uniti il primo disastro nucleare della storia. Solo a guerra finita, gli americani scopriranno i dettagli dell’operazione “Fu-go”, durante la quale erano stati lanciati 9 mila “Vascelli dei venti”, l’ultimo dei quali - del migliaio che si stima siano arrivati a destinazione - è stato rinvenuto nell’ottobre del 2014 in una foresta canadese della Columbia Britannica.

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L’ultima resa della Seconda guerra mondiale. Nel 1951 un gruppo di soldati giapponesi depone le armi sull'isola di Anatahan

Li hanno chiamati Zanryū nipponhei, Japanese holdouts, Stragglers, Ritardatari, Soldati fantasma o semplicemente Resistenti. Tanti nomi per indicare un unico fenomeno: quello dei militari nipponici che rifiutarono di deporre le armi alla fine del Secondo conflitto mondiale.

L’esponente più noto di una schiatta tutt’altro che sparuta, è stato indubbiamente Hiro Onoda, il tenente arresosi il 5 marzo  1974 nell’isola filippina di Lubang. Quella dell’ufficiale rimasto “in servizio”, a dispetto della fine della guerra, non è una storia isolata. I precedenti sono molteplici, ma uno, in particolare, merita di essere raccontato per almeno tre ragioni. La prima, perché non ha per protagonista un singolo soldato, ma un gruppo; la seconda, poiché si tratta dell’unica circostanza in cui tra gli Zanryū nipponhei figura anche una donna; la terza, perché rappresenta l’ultima resa della Seconda guerra mondiale.

Teatro della storia che ci accingiamo e narrare è Anatahan, un’isola dell’arcipelago delle Marianne passata sotto controllo giapponese al termine della Prima guerra mondiale. E’ in questo lembo di terra sperduto nella vastità dell’oceano, che nel giugno del 1944 trova scampo un gruppo di soldati del Sol Levante sopravvissuti all’affondamento di tre navi dirette a Truk, in Micronesia, dove aveva sede la principale base navale dell'impero del Tenno nel sud Pacifico. Toccata terra, con i vestiti laceri e l’animo in subbuglio, il manipolo di sopravvissuti si rende conto di essere approdato in un luogo piuttosto inospitale.

Posizionata a 75 miglia nautiche a nord di Saipan, a causa dell’elevata attività vulcanica, Anatahan era ed è tuttora disabitata. Poco più piccola di Ischia, caratterizzata da spiagge scoscese e ripidi pendii solcati da profonde gole coperte da vegetazione, l’isola presenta una piccola spiaggia solo nella parte meridionale. Al loro arrivo, i naufraghi trovano una donna, Hika Kazuko, originaria di Okinawa ed un connazionale al servizio di un’azienda attiva nella raccolta della copra destinata alla produzione del burro di cocco. La donna, da pochi giorni, era prigioniera dell’isola insieme al collega del marito, il quale, con l’avanzare delle truppe americane, non era riuscito a ritornare da Saipan, dove era andato nella speranza di mettere in salvo la sorella. Una volta approdati su quel fazzoletto di terra, i naufraghi fanno una ricognizione e si radunano non lontani dall’unica spiaggia, fiduciosi di poter essere recuperati nel volgere di qualche giorno. Un desiderio destinato a rimanere deluso in seguito alla sconfitta subita dai loro connazionali nella battaglia delle Marianne.

Tuttavia, la piccola comunità non si perde d’animo e non vedendo arrivare alcun soccorso, inizia ad organizzarsi come può: tira su capanne con fronde di palma e si nutre di noci di cocco, taro, canna da zucchero selvatica, pesci e lucertole. Acquisita la consapevolezza che la permanenza sull’isola non sarà breve, i militari giapponesi decidono di regalarsi qualche genere di conforto. Iniziano, così, a produrre il tuba, un distillato di cocco tipico delle Marianne, simile al Lambanóg filippino.

Tutto è necessariamente autarchico, almeno fino al 3 gennaio 1945, quando sull’isola precipita un B29 americano di ritorno da una bombardamento su Nagoya, in Giappone. Lo schianto, non lascia scampo agli 11 membri dell’equipaggio, ma si rivela una vera fortuna per i giapponesi. Il relitto diventa, infatti, un’insperata miniera: le lamiere vengono modellate per ricavare utensili o coperture per le capanne, i paracadute sono trasformati in indumenti, i fili dell’impianto elettrico diventano lenze per la pesca. Recuperate le armi in dotazione all’equipaggio e smontate dall’aereo le mitragliatrici ed il cannone, i giapponesi, guidati dal loro ufficiale, costruiscono rudimentali postazioni difensive.

L’esistenza di quei novelli Robinson Crusoe sarebbe rimasta ignota se, nel febbraio del 1945, sull’isola non fosse arrivata una spedizione di chamorros (indigeni delle Marianne) inviata dal comando americano di stanza a Saipan per recuperare i corpi degli avieri precipitati con il B-29. Rientrati alla base, i chamorros fanno un dettagliato rapporto e comunicano di aver avvistato un gruppo di soldati nemici. I comandi statunitensi che, con la tattica del “salto della rana”, sono impegnati, isola dopo isola, ad avvicinarsi al territorio metropolitano dell’antica Yamato, non danno molta importanza a quel manipolo di uomini rimasti, come tanti altri, intrappolati su un’isola sperduta.

Nel frattempo, la vita della comunità procede tra non poche vicissitudini. Ai comprensibili disagi determinati da una situazione limite, si aggiunge un elemento eccezionale: la presenza di Hika. Quell’unica donna, su un’isola abitata da soli uomini, peraltro spesso preda dell’euforia provocata dal tuba, genera inevitabili attriti; tanto che cinque degli undici morti registrati durante i sette anni di permanenza dei naufraghi ad Anatahan, erano mariti di Hika, quattro dei quali ufficialmente deceduti in seguito ad incidenti di pesca. La circostanza, ovviamente, non sfuggirà ai giornali che al ritorno della donna in patria non si limiteranno a tratteggiare la "Robinson" femminile intenta a modellare abiti con i paracadute, mentre gli uomini procurano il cibo. La gran parte della stampa, si concentrerà, infatti, su quelle morti avvenute in "circostanze misteriose". Per alcuni rotocalchi, poi, l'isola sarebbe stata addirittura un “focolaio di passione ed assassinio”. Tuttavia, la versione dei fatti fornita dalla protagonista è piuttosto differente. Hika, infatti, nel sostenere di essere stata costretta a sposarsi dall'ufficiale superiore del gruppo, preoccupato sia per lei che per la disciplina degli uomini, ha sempre affermato con forza che i suoi mariti non sono stati assassinati, ma morti per malattie o incidenti. In ogni caso, mentre nell’isola si riproducono dinamiche che per la stampa scandalistica coniugano eroismo ed erotismo, il tempo passa e con una certa regolarità, le autorità americane inviano navi per cercare di convincere i giapponesi a lasciare l’isola.

Fedeli al precetto del Bushido che considera la resa un disonore, i soldati nipponici rifiutano di deporre le armi, nella convinzione che la guerra non sia ancora finita. La situazione si trascina fino al luglio 1950, quando ad aprire una breccia nell’ostinato muro eretto dai suoi connazionali è proprio Hika la quale, avvistata una nave americana - la Miss Susie - chiede di essere portata via dall’isola. All’arrivo a Saipan, la donna fa sapere ai comandanti statunitensi che ad Anatahan tutti credono che Giappone e Stati Uniti stiano ancora combattendo. Gli americani segnalano, quindi, la vicenda alle autorità di Tokyo che rintracciano i familiari degli Zanryū nipponhei, invitandoli a scrivere ai loro congiunti per convincerli ad arrendersi. Le lettere vengono lanciate sull’isola, ma i naufraghi credono sia un inganno orchestrato dalla propaganda dello zio Sam.

Così, nel gennaio del 1951, a rivolgersi ai sopravvissuti è il governatore della prefettura di Kanagawa il quale, con un ennesimo messaggio, li informa della sconfitta del Giappone e dei buoni rapporti nel frattempo instaurati con gli Stati Uniti. Il governatore scrive, inoltre, che tutti i soldati sono stati rimpatriati e conclude: “Ora non ci sono altri militari giapponesi nel Pacifico, tranne voi”. Ovviamente, non tutte le lettere arrivano ai destinatari, pertanto il recapito viene ripetuto più volte, fino al 26 giugno 1951, quando i naufraghi di Anatahan decidono di arrendersi. Pochi giorni dopo, il 30 giugno prende il via l’operazione “Rimozione". Da Saipan salpa il rimorchiatore oceanico Uss Cocopa. Una volta a destinazione, dalla nave viene calato in mare un gommone che porta sull’isola l’interprete Ken Akatani ed il tenente comandante James B. Johnson, al cospetto del quale i 19 soldati superstiti depongono le armi. Saliti a bordo della nave, con i loro pochi averi sistemati in un pandano intrecciato, vengono condotti a Guam da dove, nel giro di una settimana, un aereo della Marina degli Stati Uniti li condurrà a Tokyo. E’singolare che l’ultima guarnigione giapponese lasci le Marianne lo stesso giorno in cui la gestione dell’Amministrazione americana del Territorio delle isole del Pacifico passa dai militari ai civili.

Segno che la Seconda guerra mondiale è definitivamente finita, anche se Zanryū nipponhei isolati, continueranno la pugna fino alle soglie degli anni Ottanta.

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Hiroshima, 6 agosto 1945: gli Usa aprono le porte all'incubo atomico

Sei agosto 1945, dopo le lunghe piogge tipiche della stagione monsonica, su Hiroshima splende finalmente il sole. Nonostante la guerra, gli abitanti portano avanti le loro occupazione con il consueto ritmo frenetico. Nulla sembra presagire la catastrofe che sta per annientare uomini e cose. Fin dalle prime ore della giornata il centro città brulica di biciclette e camion militari. A dispetto dei due allarmi aerei risuonati nel corso della notte, le donne vanno regolarmente al mercato. Nonostante l’apparente normalità, su Hiroshima, come sul resto delle città del Sol Levante incombe l’incubo dei “Bsan”, il nome con il quale i giapponesi chiamano i B29, i bombardieri americani che nel marzo del 1945 hanno devastato Tokyo. La paura è legata soprattutto alle bombe incendiarie che, complice la struttura in legno della gran parte delle abitazioni, innesca incendi che si propagano con grandissima rapidità. Nessuno conosce, invece, l’esistenza di quell’ordigno che proprio ad Hiroshima inaugurerà l’era atomica. L’arma, nata dal “Progetto Manhattan”, è stata costruita in gran segreto. Il presidente americano Harry Truman non vede l’ora di impiegarla in guerra, a tal punto che dalla fine della sperimentazione all’impiego bellico non passa neppure un mese. La fase conclusiva del progetto viene messa a punto nel deserto del Nuovo Messico il 16 luglio, quando, nel poligono di Alamogorno, viene fatta esplodere una bomba i cui effetti sono devastanti. La funzione della nuova arma, molto probabilmente, non è quella di accorciare la durata del conflitto, il cui esito, dopo la fine della guerra in Europa, è ormai segnato, bensì a far vedere i muscoli all’Unione Sovietica. Come sanno gli analisti statunitensi, chiusa la partita con le potenze del “Tripartito”, la sfida futura vedrà protagonisti due blocchi guidati da Usa ed Urss. Nel subdolo linguaggio cifrato della politica internazione, il nuovo ordigno rappresenta, quindi, un inequivocabile messaggio indirizzato alla controparte. La storia della bomba sganciata 72 anni fa ad Hiroshima, nome in codice “Little boy”, inizia l’1 agosto 1945 a Tinian, la base militare delle isole Marianne, dove l’ordigno, della lunghezza di 3 metri e del peso di oltre 4 tonnellate, viene montato. Al suo interno sono contenuti 68 chili e 280 grammi d’uranio. Nessuno conosce ancora il nome della città che legherà il suo nome alla prima esplosione nucleare della storia. Solo per uno sfortunato caso l’atomica sarà sganciata su Hiroshima. Le città candidate, infatti, sono quattro: Kokura, Nagasaki, Yokohama e Hiroshima. La scelta della località da bombardare è condizionata dalla meteorologia. Decollato alle 2,45, l’Enola Gay, questo il nome del B29 guidato dal colonnello Tibbets sul quale è stata caricata la bomba, non conosce ancora il suo bersaglio. Ad indirizzare il velivolo saranno i ricognitori inviati sulle città prescelte. Alle 7,45 gli aerei incaricati di verificare le condizioni meteo arrivano a destinazione. I messaggi inviati via radio a Tibbets lasciano pochi margini di scelta. A Kokura, Nagasaki e Yokohama il cielo è coperto e la visibilità è ridotta, situazione decisamente diversa a Hiroshima dove la visibilità supera le dieci miglia. L’Enola Gay si dirige quindi sulla città che, in quel momento, ospita 245 mila abitanti, altri 100 mila sono stati sfollati. Alle 8,15 e 17 secondi viene aperto il portellone della stiva e l’ordigno, sul quale sono stati scritti decine di oltraggiosi messaggi indirizzati all’imperatore, inizia la sua caduta nel vuoto. Quarantatre secondi dopo, a 660 metri da terra, i detonatori innescano l’esplosione che origina una palla di fuoco di oltre 100 metri di diametro. Nei sette secondi successivi, la temperatura raggiunge i 300 mila gradi, nel raggio di tre chilometri non rimane pressoché nulla. Da terra si alza una colonna di vapore, fumo, polvere e detriti che supera i 3 mila metri d’altezza e si allarga in cima per un diametro di 17 mila metri. Al suolo è l’apocalisse. Nel raggio di 12 chilometri quadrati i danni sono inimmaginabili, 30 mila persone sono state letteralmente polverizzate, di loro non rimarrà alcuna traccia. Complessivamente, secondo le stime di Tokyo, i morti sono 70 mila, i feriti, la gran parte dei quali ustionati, sono 130 mila. Per gli americani la missione è un successo. Truman è raggiante, a tal punto, da autorizzare un nuovo attacco atomico che verrà eseguito a soli tre giorni di distanza. Il nove agosto, infatti, una seconda bomba chiamata “Fat man”, sganciata su Nagasaki, la città in cui risiede la più grande comunità cattolica del Giappone, provoca 30 mila morti e 60 mila feriti. La guerra è finita, l’incubo atomico è appena iniziato.

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Dal terremoto di Reggio e Messina alla Rivoluzione d’Ottobre, la lunga storia dell’incrociatore Aurora

Ci sono simboli che sfidano il tempo, a tal punto da sopravvivere a ciò che li ha resi celebri. Un caso particolare è quello dell’incrociatore Aurora, la nave da cui partì il primo colpo di cannone che diede l’abbrivo alla Rivoluzione d’Ottobre.

Si tratta di un’unità da guerra dal destino particolare, l’unica a fregiarsi del vessillo di Sant’Andrea, prima e dopo quello dei soviet. In questi giorni è ritornata alla ribalta, poiché dopo un restauro, durato due anni, è ritornata al suo posto a San Pietroburgo, dove continuerà ad essere esposta come museo.

La storia dell’incrociatore è legata agli eventi più tragici del Novecento. Un segno particolare lo ha lasciato anche in Italia, dove partecipò attivamente ai soccorsi a Reggio e Messina, dopo il devastante terremoto del 1908.

Nonostante fosse in linea da meno di un lustro, quando giunse nelle acque dello Stretto, l’Aurora vantava uno stato di servizio di tutto rispetto. Progettata dall’ingegnere Ratnik, responsabile dei cantieri navali di San Pietroburgo, era stata impostata nel 1897. Varata l’11 maggio 1900, dopo l’allestimento, era entrata in servizio nel 1903. Lunga 127 metri e larga 17, poteva raggiungere la velocità di circa 20 nodi con un equipaggio formato da 550 marinai agli ordini di 20 ufficiali. Il nome gli era stato dato in onore dell’omonima fregata che, durante la guerra di Crimea (1853 – 1856), aveva difeso con successo la città di Petropavlov. Dopo il varo, era andata a far parte della potente flotta del Baltico. Dalle gelide acque del nord Europa, fu spedita sui tiepidi marosi del Pacifico, dove presa parte attiva al conflitto russo-giapponese (1904-1905). Partecipò anche alla battaglia di Tsushina (27-28 maggio 1905), nel corso della quale la marina nipponica fece strage del naviglio zarista.

L’Aurora fu tra le poche navi a scampare alla falcidia provocata dai siluri del Sol Levante. Colpita da una corazzata e pesantemente danneggiata riuscì a tenersi a galla fino a raggiungere, avventurosamente, il porto di Manila, nelle Filippine. Riparata e riportata in Russia, a partire dal 1907 fu adibita a nave scuola per i cadetti.

In tale veste, il 28 dicembre 1908, si trovava in Sicilia, quando il flagello del terremoto si abbatté su Reggio e Messina. Fu tra le prime unità a portare soccorso alle popolazione delle sue martoriate città. La mattina del 29 dicembre, raggiunse la rada di Augusta dove, secondo i piani emanati dall’Alto Comando di Pietroburgo, avrebbe dovuto incontrare la squadra navale del suo Paese impegnata in un’esercitazione nel Mediterraneo. Trovò ad attenderlo il solo incrociatore Bogatyr, mentre al suo fianco la corazzata Slava, salpate le ancore, si apprestava a partire alla volta di Messina. La sera precedente, ricevuto un cablo contenente la richiesta di portare aiuti immediati, l’ammiraglio Livtinov aveva dato ordine alla corazzata Cesarevic e all’incrociatore Makarov di muovere alla volta della città dello Stretto.

Nelle stesse ore in cui l’Aurora dava fondo alle ancore ad Augusta, le due navi erano già entrate nel porto di Messina ed avevano iniziato a sbarcare uomini e mezzi.

Erano state precedute di poche ore dalle cannoniere Gilijak e Koreek, anch’esse della flotta russa, provenienti da Palermo; il giorno successivo le avrebbero raggiunte la corazzata Slava, due giorni dopo il Bogatyr, mentre l’Aurora si sarebbe diretto su Reggio.

La Cesarevic e il Makarov rimasero stabilmente in porto; la Slava, il Bogatyr e l’Aurora iniziarono a far la spola tra Reggio, Messina e Napoli divenuta retrovia della catastrofe e centro di raccolta dei feriti recuperati dai marinai russi nelle città dello Stretto.

Terminata la missione nel Mediterraneo, a partire dal 1910, iniziò una lunga crociera negli oceani, Pacifico, Atlantico ed Indiano, partecipando, tra l’altro, nel 1911, ai festeggiamenti per l’incoronazione del re del Siam, l’attuale Thailandia. Dopo essere ritornata nella sua base, nel corso della prima guerra mondiale venne impiegata sul Baltico a difesa della città di Riga. Nel 1916 venne fatta rientrare a San Pietroburgo per essere sottoposta a manutenzione straordinaria. Qui, il 25 ottobre del 1917, entrò nella storia facendo partire dal castello di prua il primo colpo di cannone che diede l’avvio alla Rivoluzione d’Ottobre.

Nel 1918, durante la guerra civile, l’incrociatore venne trasferito a Kronstadt e posto in riserva. Le sue bocche da fuoco, una volta smontate vennero, spedite ad Astrakhan dove armarono la batteria della flottiglia rossa del Volga e del Caspio.

Nel 1924 venne schierata nuovamente sul Baltico dove funse da nave scuola. In occasione del decennale della rivoluzione fu insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, la colse nella rada di Oraniembaum. Venne, quindi, impiegata a difesa di Leningrado come batteria antiaerea mentre, nel 1941, le sue batterie furono smontate per ordine di Georgij Zukov e furono mandate al fronte insieme ai cannoni della flotta del Baltico per contrastare l’avanzata delle truppe tedesche. Montati su un treno speciale, i cannoni del vecchio incrociatore furono schierati a difesa di Pietroburgo, la città teatro delle sua antiche gesta, ribattezzata nel frattempo Leningrado. L’unità venne gravemente danneggiata dal fuoco dell’artiglieria tedesca, il 30 settembre 1944.

Recuperata nel 1944, al termine del conflitto venne sottoposta ad un lungo e complicato restaurato. Ritornata in linea come nave scuola, nel 1956 venne trasformata in museo galleggiante e collocata sulla Neva, nel punto esatto da cui sparò il famoso colpo di cannone.

Decorata con l’Ordine della Rivoluzione d’Ottobre nel 1968, continuò a far sventolare la bandiera rossa fino al luglio 1992.

Da allora, sul suo pennone garrisce al vento il vessillo navale di Sant’Andrea, lo stesso che oltre cento anni fa, videro fremere i superstiti di Reggio e Messina.  

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E` morto l'uomo piu` vecchio del mondo, aveva 112 anni

In un ospedale della citta` di Nagoya, nel centro del Giappone, e` morto Yasutaro Koide. A 112 anni di eta`, era considerato l'uomo piu` vecchio del mondo. Era nato il 13 marzo 1903, nella prefettura di Fukui, a Nord-Ovest di Tokyo, dove ha lavorato come sarto. L'ultracentenario è stato stroncato dalle complicazioni derivanti da un attacco cardiaco e da una polmonite. A luglio del 2015, il suo primato era stato certificato dal Guinness World Records. Il nuovo record è passato, ora, ad un altro giapponese, Masamitsu Yoshida, che essendo nato il 30 maggio 1904, di anni ne ha 111. Un primato che qualcuno contesta, dal momento che in Brasile, vive Joao Coelho de Souza, soprannominato "l'uomo dei record" perché dice di avere 131 anni. Una storia che, allo stato, non gode di alcun riscontro documentale.

In giappone una "ferrovia" per le tartarughe

Una "ferrovia" per le tartarughe. E' quanto è stato realizzato in Giappone per garantire la sicurezza delle tartarughe marine che, in passato, sono più volte rimaste incastrate tra i binari. L'idea è stata messa in pratica dalla West Japan Railway Company che ha installato dei "tunnel" attraverso i quali le testuggini possono attraversare in sicurezza le rotaie. Ogni anno, infatti, molti di questi rettili, data la vicinanza con il mare, morivano dopo essere rimasti bloccati fra i binari. Gli incidenti causavano, inoltre, ritardi e malfunzionamenti sulla tratta ferroviaria, in quanto, nel tentativo di attraversare la ferrovia, le tartarughe rimanevano intrappolate fra le due rotaie impedendo al meccanismo di scambio di funzionare con conseguenti problemi per i treni. A quanto pare la soluzione è piaciuta ai destinatari dell'opera che hanno iniziato a percorre il tunnel in tutta tranquillità.

 

 

 

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