Gli italiani diventano più poveri, il Governo pensa a nuove tasse

Come nella migliore tradizione italica, i nodi stanno venendo al pettine. Il tappeto non riesce più a contenere la tanta polvere che la politica ha cercato di nascondere. Dopo sei anni di democrazia bloccata, governi non eletti da nessuno e misure lacrime e sangue, gli italiani sono sempre più poveri.

Mentre il rovello del Governo è come raccattare i soldi necessari ad evitare le clausole di salvaguardia, aumenta il numero dei cittadini indigenti.

Ad evidenziare il livello di povertà presente in Italia, è stata l’Istat con il dossier sul Def. Il documento, presentato alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ha fotografato una realtà sconcertante.

Una realtà che si cerca di nascondere con banali espedienti linguistici. Il ricorso all’espressione “grave deprivazione materiale”, non alleggerisce affatto lo stato di miseria in cui versa quasi il 12 per cento della popolazione italiana.

Nonostante la reiterata narrazione che vuole il Paese, ciclicamente, fuori dalla crisi, negli ultimi tre lustri, è cresciuto il numero delle famiglie che vivono di stenti.

Secondo il rapporto Istat, i nuclei familiari indigenti superano i 3 milioni. Complessivamente, gli italiani sotto la soglia di povertà sono 7 milioni  209 mila.

La crisi economica ha colpito pesantemente gli over 65 che, tra il 2015 ed il 2016, hanno subito un vistoso processo d’impoverimento. In poco meno di un anno, gli anziani indigenti sono passati dall’8,4  all’11, 1 per cento. Un dato sul quale pesa anche l’assenza di opportunità occupazionali. Sono sempre più numerosi, infatti, i genitori costretti a dividere la magra pensione con i figli senza lavoro.

La situazione peggiore, ovviamene, riguarda il Mezzogiorno dove la povertà è tre volte superiore a quella registrata nell’Italia Settentrionale.

I dati dimostrano come (per continuare la lettura clicca qui)

     

]Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

Le fake news e le false verità

Il vero pericolo sono le fake news. E’ colpa loro, se i popoli  mostrano riluttanza rispetto alle devastanti politiche liberiste praticate in Occidente. Per circoscriverne le conseguenze, i campioni della libertà a fasi alterne, si stanno prodigando per istituire un organismo censorio. Un comitato cui affidare il compito di stabilire, ciò che può essere pubblicato e ciò che deve essere taciuto.

Niente di originale, ovviamente.

Il modello ispiratore potrebbe essere ricercato in  1984, il romanzop distopico in cui George Orwell parla del “ministero della Verità”. Un organismo, cui il potere  ha assegnato il compito di selezionare le notizie. Quelle pericolose vengono scaricate nel “buco della memoria”, le altre, invece, vengono riscritte per adattarle alle esigenza del momento.

Sul primo fronte, si sta cercando di affinare il meccanismo, proprio a partire dalle fake news. Sul secondo, invece, i pupari dell’informazione  si sono decisamente portati avanti. Grazie a tv e giornali di servizio, le notizie sono sottoposte ad un costante trattamento manipolatorio.

Un esempio particolarmente efficace, è rappresentato dall’azione propagandistica messa in campo in occasione della celebrazione del Trattato di Roma. Paginate intere di giornali scritte per declamare le virtù dell’Unione europea. Servizi confezionati per cercare di rendere appetibile un’istituzione che si occupa di tutto, fuorché del benessere dei cittadini.

Nel misero repertorio mandato in scena, gli agit prop di Bruxelles hanno cercato di presentare il volto buono dell’Europa. Per farlo hanno seguito le direttive del “ministero della verità”.

Non potendo dichiarare, infatti, che l’Ue, lungi dall’essere la casa comune dei popoli europei, è diventata un enorme centro commerciale con annesso circo destinato agli apprendisti stregoni della finanza, l’informazione di servizio si è dovuta inventare qualcosa.

In assenza di argomentazioni concrete, la macchina della propaganda ha puntato tutto su un tema astratto: la pace. “Dopo mille anni di guerre – è stato scritto  – grazie all’Unione, per la prima volta l’Europa non ha conosciuto la guerra”.

Si tratta del classico esempio, in cui la realtà viene modellata, plasmata ad uso e consumo della tesi da sostenere. La formula, ripetuta come un mantra, diventa quindi una verità ufficiale.

Una verità fallace, fuorviante, in contrasto con la realtà. La storia d’Europa,  è vero, è costellata d’ innumerevoli guerre, ma è altrettanto vero che gli europei non si sono sempre scannati. Lunghi periodi di pace ci sono stati, anche quando l’Ue non era nata. Giusto per non andare troppo in là nel passato, basti ricordare gli oltre trent’anni senza guerra seguiti al Congresso di Vienna ed il mezzo secolo di pace, trascorso dalla battaglia di Sedan allo scoppio della Grande Guerra.

A ciò si aggiunga che se, in Europa, il cannone tace dal 1945, il merito non va certo ascritto all’Ue. Non va dimenticato, infatti, che per oltre cinquant’anni il mondo è rimasto congelato. Il lungo periodo di pace è stato determinato da fattori del tutto estranei alle istituzioni europee. Sono stati gli effetti devastanti della Seconda guerra mondiale, la logica di Yalta, la cortina di ferro e gli arsenali nucleari di Russia e Stati Uniti ad impedire l’esplosione di nuovi conflitti.

L’Europa ha giocato il ruolo della semplice spettatrice, anche quando la guerra ne ha lambito i confini con la mattanza nei Balcani.

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Il caso Minzolini e la sfiducia nei partiti

La vicenda che, nei giorni scorsi, in Senato ha visto protagonista Augusto Minzolini è solo l’ultimo di una lunga serie di esempi in cui la “casta” interviene per preservare se stessa. Nel caso dell’ ex direttore del Tg1 condannato, a due anni e sei mesi, per aver speso 65 mila euro con la carta di credito della Rai, la macchina del trasversale soccorso parlamentare ha dimostrato la sua proverbiale efficienza.

Un’efficienza sconosciuta in altri ambiti.

Ma quando c’è da salvare la cadrega, deputati e senatori si distinguono per la generosa solidarietà.  Una generosità determinata dall’assenza di diaframma tra la gran parte dei partiti presenti in Parlamento. In molti casi, sono l’uno la fotocopia dell’altro. Comitati il cui centro di gravità è rappresentato da interessi, spesso in conflitto con quelli dei cittadini.

Episodi sui quali, in altri tempi, i partiti avrebbero alzato barricate, oggi vengono affrontati all’insegna del “volemose bene”.

Capita, quindi che, un giorno, i senatori di Forza Italia non votino la sfiducia al ministro Lotti e il giorno successivo, quelli del Partito democratico si sentano in dovere di soccorrere il collega azzurro.

La volontà democrat d’inviare un manipolo di truppe cammellate a difendere il ridotto Minzolini, lo si deduce da una circostanza. Nell’occasione, al Largo del Nazareno è stata lasciata libertà di coscienza. Cosa c’entri con la coscienza un voto in cui si delibera l’applicazione di una legge (Severino) che stabilisce la decadenza del parlamentare condannato a più di due anni, è un mistero piuttosto buffo.

La vicenda rappresenta, piuttosto, il paradigma di quanto la politica sia arroccata nella propria torre d’avorio. I partiti sono sempre più alieni rispetto al Paese che pretendono di rappresentare.  Deputati e senatori, come i passeggeri del treno senza macchinista lanciato a folle velocità, descritto da Zola nella “Bestia umana”, continuano a fare tranquillamente i loro comodi.

Il treno, però, prima o poi si schianterà.

Tanto più che il “teatrino della politica” risulta sempre più indigesto. Gli italiani ne hanno le tasche piene di cacicchi,  incapaci, non solo di risolvere i problemi, ma anche di capirli.

Nulla di più normale, quindi, se i cittadini non hanno alcuna fiducia nei partiti.

La cifra di quanto la diffidenza sia radicata, è stata fotografata da un sondaggio condotto dall’Istituto Demopolis.

L’indagine, effettuata dal 5 al 7 marzo, ha rilevato che solo cinque persone su cento nutrono fiducia nei partiti.

Un dato dovrebbe far suonare, non uno, ma mille campanelli d’allarme:

la percentuale di chi si fida dei partiti è scesa di  20 punti rispetto al 1992, l’anno di Mani Pulite.

*articolo pubblicato su mirkotassone.it

Wikileaks e gli spioni nascosti nelle nostre tv

Le rivelazioni contenute in “Vault7”, la nuova serie di documenti riservati pubblicati da Wikileaks, farebbero impallidire anche il vecchio Dioniso. Neppure il tiranno siracusano, famoso per l’orecchio che ha preso il suo nome, avrebbe potuto partorire niente del genere.

I files provenienti dal Center for Cyber Intelligence di Langley, in Virginia, la cui prima tranche denominata “Anno zero” si compone di 8.761 cartelle, costituiscono la “più grande pubblicazione di documenti riservati” appartenenti alla Cia.

Si tratta di “carte” scottanti che rivelano un realtà inquietante. Un realtà nella quale tutti siamo potenzialmente a rischio.

Negli anni della presidenza Obama, il servizio segreto Usa ha allestito un immenso arsenale costituito da malware, trojan e armi cibernetiche. Grazie alle nuove tecnologie, gli 007 americani hanno sviluppato sofisticati strumenti informatici in grado di violare la riservatezza di chiunque.

A fare notizia, non sono tanto i programmi capaci di captare le informazioni dei comuni smartphone. Che i telefoni, sia che utilizzino tecnologia Apple che Android, non siano sicuri non è certo una novità.

Ciò che lascia basiti sono, invece, gli strumentii che consentono di entrare direttamente nelle case o nelle auto di chiunque.

Alla luce delle rivelazioni, tramite la Edg che realizza software all’interno del Centro cyber intelligence, la Cia avrebbe messo a punto un dispositivo chiamato “Weeping angel” (angelo piangente). Si tratta di un programma d’inaudita invasività, poiché può essere installato sulle smart tv. Sviluppato in collaborazione con l’MI5, il servizio segreto britannico, l’ “Angelo piangente” capta le conversazioni attraverso il televisore e le invia ad un server della Cia.

In altri termini è come se un sicofante stesse comodamente seduto sul divano di casa e in maniera discreta,  ma precisissima, annotasse tutto ciò che dicessimo.

Ancor più preoccupante e pericoloso, un altro programma lanciato nell’ottobre 2014. Un malware utilizzato per “infettare” i sistemi di controllo dei veicoli. Non è un semplice strumento usato per spiare chi si trova nell’abitacolo di un’auto o di un camion. E’ qualcosa di assolutamente diabolico.

Si tratta di un software grazie al quale sarebbe possibile prendere il controllo in remoto degli automezzi. Il programma, pare sia stato addirittura impiegato per commettere omicidi e farli passare per incidenti.

I  documenti pubblicati da Wikileaks  gettano luce su tutta una serie di dispositivi che mettono a repentaglio, non solo il diritto alla riservatezza, ma addirittura la vita delle persone.

A destare ulteriore preoccupazione, la rivelazione secondo la quale la Cia avrebbe perso il controllo della maggior parte dei file che compongono il suo cyber arsenale.

A questo punto sarebbe interessante sapere chi controlla i controllori, come vengono definiti i target, come vengono usate le informazioni. Domande che, ovviamente, rimarranno inevase e che fanno pensare a “L’America”.

La canzone in cui Giorgio Gaber cantava:

“No, a me l’America non mi fa niente bene. Troppa libertà, non c’è niente che appiattisca l’individuo come quella libertà lì. Nemmeno una malattia ti magia così bene dal di dentro.
Come sono geniali gli americani, te la mettono lì, la libertà è alla portata di tutti, come la chitarra. Ognuno suona come vuole, e tutti suonano come vuole la libertà”.

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Gli amici dell’Europa che odiano l’Occidente

“Dagli amici mi guardi Iddio che dai nemici mi guardo io”. Un adagio particolarmente calzante per alcune imbarazzanti amicizie coltivate da Europa e Stati Uniti. Nella lista degli alleati dell’Occidente figurano, infatti, Paesi cui starebbe bene la definizione di “Stati canaglia”, coniata dai politologi anglosassoni per indicare le nazioni pericolose per la democrazia.  Si tratta di nazioni con cui il Vecchio continente e gli Usa fanno affari ed alle quali vendono armi ultramoderne.

Paesi retti da sistemi dispotici, nei cui confronti vige la consegna del silenzio. La stampa Occidentale, italiana in particolare, sempre attenta a cavalcare il destriero del politicamente corretto, non ne parla, quasi mai.

Le tiranniche petro-teocrazie del Golfo, dall’Arabia Saudita, al Qatar, assai di rado sono oggetto di dibattito.  Sono esenti da qualunque discussione relativa alla violazione dei diritti delle donne, degli immigrati, delle libertà più elementari. I loro abusi non vengono mai contestati. Così, come non vengono denunciati, i crimini di guerra che i sauditi compiono ogni giorno in Yemen.

L’ipocrisia dell’Occidente, più che assurda, è sconcertante. Tanto più che non è un mistero che dietro il terrorismo internazionale di matrice islamica ci siano proprio loro. Eppure, Europa ed Usa fingono di non sapere.

Prendiamo ad esempio il Qatar che continua, indisturbato, a fare shopping in Italia e in Europa nonostante le decine di rapporti che ne denunciano le connessioni con le centrali che alimentano il terrore. E’ ormai acclarato, infatti, che nel processo di destabilizzazione del Mediterraneo, i proventi del petrolio abbiano giocando un ruolo determinante, dalla Siria alla Libia.

Del resto, la strategia di divulgare l’islam oltranzista di matrice salafita è arcinota. Una strategia che prevede una progressiva penetrazione in Europa dove, ogni anno, vengono inviate decine di predicatori radicali. Nel Vecchio Continente, gli emiri finanziano moschee e centri di cultura con lo scopo di diffondere il verbo dell’intransigenza religiosa.

Un verbo, portato sulle coste del nord Africa dagli Ak47 dei miliziani del Califfato.  Il tutto, nel più assoluto silenzio dei media nostrani.

Un silenzio complice, criminale, comprato a suon di petrodollari

Nei giorni scorsi, un quotidiano tunisino ha pubblicato un rapporto segreto in cui si parla di un campo d’addestramento allestito dal Qatar nella città di Beja, in Tunisia.  Secondo le indiscrezioni fatte trapelare dall’organo d’informazione, i qatarioti vi avrebbero fatto confluire decine di miliziani algerini reduci dai campi di battaglia di Iraq e Siria.

Il rapporto ha rivelato che l’addestramento dei terroristi, ha lo scopo di destabilizzare l’Algeria. Il progetto, coordinato dagli agenti di Doha, si articolerebbe in tre fasi. Completato l’addestramento, i circa 800 miliziani affiliati all’Isis, dovrebbero entrare clandestinamente in Algeria dove dovrebbero creare basi logistiche in aree poco popolate. Da qui, dovrebbe partire la terza fase, quella destinata a far entrare in azione i terroristi nei grandi centri urbani.

Un scenario che l’Algeria ha già conosciuto negli anni Novanta, quando il Paese venne sconvolto dalla sanguinosa guerra civile alimentata dal braccio armato del Fronte islamico di salvezza.

Se ciò accadesse, la situazione sarebbe esplosiva. L’Italia si troverebbe, ancora una volta,  a pagare il prezzo di una crisi dalle conseguenze incalcolabili.

Per prevenire il rischio che incombe, gli algerini stanno presidiando il loro permeabile confine con la Tunisia. Da una parte, stanno alzando una barriera di sabbia,  dall’altra, stanno intensificando i controlli. Nelle scorse settimane, le forze di sicurezza di Algeri hanno scoperto una decina di tunnel destinati a far passare uomini ed armi.

Mentre tutto ciò accade, sulla porta di casa, l’Italia e l’Europa continuano a crogiolarsi nel loro pusillanime immobilismo. Un immobilismo che alla lunga si rivelerà fatale.

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La finzione è finita, l’Italia va peggio della Grecia

Si chiama movimento indotto. E’ l’illusione che si ha, ad esempio, quando ci si trova su un treno fermo e a muoversi è quello sul binario accanto. Pur rimanendo immobili, si ha la percezione di essere in movimento. E’ ciò che è capitato all’Italia di Renzi.

Sul Paese è stata proiettata l’idea che ci si stesse muovendo a ritmo forsennato, salvo ritrovarsi, alla fine del viaggio, al punto di partenza. Dopo il fatale 4 dicembre, tutti i nodi sono arrivati al pettine.

Gli italiani hanno scoperto che le riforme, vere o presunte, non hanno cambiato un bel nulla. A ricordare a tutti la condizione dell’Italia, ci ha pensato l’Europa. Proprio l’Ue ha, infatti, ammonito il Governo a trovare 3,5 miliardi di euro. Una manovra correttiva necessaria ad aggiustare i conti pubblici. La presa di posizione di Bruxelles ci dà la misura di come, dopo 6 anni di democrazia commissariata, i problemi siano rimasti tutti sul tavolo.

Sul fronte del miglioramento del rapporto deficit/Pil, la situazione, non solo non è migliorata, ma si è addirittura incancrenita. Prova ne sia l’aumento del debito pubblico nel corso dell’ultimo lustro (ne avevamo parlato qui). La situazione non è migliorata neppure sul versante occupazionale. Se si eccettuano le trasformazioni, drogate dagli incentivi, dei rapporti a termine, in contratti a tempo indeterminato, la percentuale dei disoccupati è rimasta a due cifre.

La narrazione che ci voleva fuori dalla crisi, alla fine, si è schiantata contro il muro della realtà.

La nuda realtà evidenzia un’economia ferma, asfittica, stagnante. I dati diffusi della Commissione europea sono impietosi. Il prodotto interno lordo italiano, nel 2017, crescerà di un misero 0,9 %. Nel 2018, non supererà l’1,1. Se l’economia non cresce, aumenta il rapporto deficit/Pil destinato, nell’anno in corso, ad attestarsi al 133,3 %.

In altri termini, le previsioni relegano l’Italia all’ultimo posto in Europa.

Nel 2017 – 2018 , i Paesi dell’Ue cresceranno in media dell’1,6 e dell’ 1,8%. Numeri, quasi doppi, rispetto a quelli italiani.

Il raffronto diventa ancor più impietoso se si compara la crescita italiana con quella della Grecia e della Bulgaria. Nei due Paesi più squinternati d’Europa, nel 2017, il Pil crescerà rispettivamente del 2,7 e del 2,9%. Percentuali, tre volte superiori a quelle italiane.

Archiviate le favole, i numeri restituiscono, quindi, la fotografia di un Paese che, in questi anni, è rimasto a guardarsi i piedi seduto su una montagna di bugie.

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Il clamore sulla Raggi ed il silenzio sulle banche

 “Molto rumore per nulla”. Si potrebbe usare il titolo della commedia di Shakespeare, per descrivere l’atteggiamento della stampa nostrana nei confronti delle polizze assicurative intestate a Virginia Raggi. Non che alcuni dettagli non abbiano interesse, ma rimangono, per l’appunto, dettagli. Si tratta di un episodio decisamente sovradimensionato, anche alla luce, della cappa di omertà calata sulla lista nera dei debitori insolventi che hanno causato il crack di alcune banche.

Sull’argomento, tranne poche lodevoli eccezioni, i giornalisti italiani continuano ad essere piuttosto distratti.

Eppure, si tratta di un tema scottante. In un Paese normale, non soggiogato da poteri forti e da oscuri potentati, si farebbero le barricate.

In nome della libertà, l’informazione dovrebbe fare il suo dovere. Indagare, incalzare, spronare, pretendere la verità.

Ed invece, vige il più servile silenzio.

Del resto, la vicenda si è già risolta nel più italico dei modi, in una impalpabile bolla di sapone.

Pur avendo tutto il diritto si conoscere il nome degli scrocconi cui hanno pagato il “mutuo”,  gli italiani tacciono.

A coprire chi è scappato con la cassa, ci hanno pensato i partiti che sostengono il Governo, Partito democratico in primis.

La commissione Finanze del Senato ha, infatti, bocciato gli emendamenti che prevedevano la pubblicazione dei nomi di quanti non hanno onorato i loro debiti.

Nell’ambito della conversione del decreto “Salva banche”, con il quale agli italiani sono stati sottratti 20 miliardi, la Commissione ha scelto la più classica delle soluzione. Si è deciso, infatti, di pubblicare, non i nomi dei debitori insolventi, ma il loro profilo di rischio. Un dato con il quale i cittadini comuni non riusciranno, mai, a capire chi siano i pitocchi cui hanno  pagato i debiti.

A nulla sono valse le tante proposte presentate dai partiti d’opposizione, dalla Lega al M5s. Ancor meno, sono state prese in considerazione le parole del presidente Abi, Antonio Patuelli che aveva invocato la pubblicazione della “black list”.

Il palazzo, Pd in testa, sì è arroccato a difesa dei disonesti. La giustificazione, piuttosto ridicola, si commenta da sola: ” non si possono mettere alla gogna i debitori insolventi”.

In altri termini, bisogna avere un occhio di riguardo per chi, dopo aver banchettato abbondantemente, è scappato senza pagare il conto.

Immaginiamo la scena.

Seduti al ristorante, per consumare un frugale brodino, assistiamo al lauto banchetto di un allegra combriccola. Osserviamo, con un pò d’invidia, i commensali che mangiano aragoste e bevono champagne. Tutte cose che non possiamo permetterci. Ad un certo punto, uno alla volta, i protagonisti del pranzo luculliano si sfilano senza pagare. Una volta scappati via, il cameriere si avvicina e ci porta il conto. Non quello del nostro brodino, ma quello del banchetto. Chiediamo spiegazioni, chiediamo di conoscere almeno l’identità delle persone che ci hanno lasciato da saldare il salatissimo conto. Il cameriere, piccato, ci risponde che non può dirci i nomi. A quel punto, anche il più pacifico degli uomini, si toglierebbe la soddisfazione di mollargli un ceffone.

Ed invece, senza neppure pretendere una spiegazione, gli italiani pagano e tacciono.

Un comportamento  assurdo, in linea con un collaudato canovaccio.

Come da copione, infatti, nel Paese del buonismo un tanto al chilo, ad essere tutelati sono i carnefice, mica le vittime.

Quindi, nessuna sorpresa se, sulla vicenda, è stata alzata un’impenetrabile cortina fumogena. Nessuna sorpresa se non c’é alcuna vocazione alla ricerca della verità. Nessuna sorpresa se nessuno osa scendere in piazza per chiedere la pubblicazione dei nomi.

Un atteggiamento incomprensibile, tanto più che la famigerata lista aiuterebbe a svelare gli intrecci perversi che soffocano il Paese.

Sarebbe opportuno sapere se, come sembra, tra i nomi figurano faccendieri abituati a fare il bello ed il cattivo tempo. Se, come sembra, ci sono (im)prenditori ben introdotti nel mondo della politica. Se, come sembra, ci sono editori di testate importanti; giornali che su Monte dei Paschi non hanno mai pubblicato un rigo e che, in questi giorni, stanno concentrando la loro attenzione sulle polizze assicurative romane. Il tutto, ovviamente, per stornare l’attenzione da uno dei più grandi scandali degli ultimi decenni.

La mancata pubblicazione della lista  rappresenta l’indicatore del pessimo stato di salute della democrazia italiana. Una democrazia che i “grandi” giornali sono disposti a difendere solo quando ci sono in ballo gli interessi; dei loro editori.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

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La crisi, le banche e gli squali della finanza

Tanto si è detto ed altrettanto si è scritto sulla crisi economica iniziata nel 2008. Le tante analisi prodotte non, sempre, sono arrivate a toccare la radice del problema.

La tempesta, non ancora passata, che si è abbattuta sul pianeta è piuttosto singolare. A determinarla, non è stato, infatti, un brusco calo della produzione né una marxiana crisi di sistema, provocata da sovrapproduzione.

Partita dagli Stati Uniti, la crisi del 2008 è il risultato dell’attività speculativa innescata dalle politiche iperliberiste inaugurate a partire dagli anni Novanta.

La causa remota di ciò che è successo in questi anni, va ricercata in una legge voluta da Bill Clinton.

Nel 1999, l’allora presidente Usa promulgò l’abolizione del Glass-Steagal act. Un provvedimento destinato ad avere effetti devastanti sull’economia di mezzo mondo.

Varata dal Congresso nel 1933, per volontà di Franklin Delano Roosevelt, la norma era nata con lo scopo di arginare i fallimenti delle banche americane in seguito alla grande depressione del 1929. Il principio ispiratore della legge, era rappresentato dalla netta separazione tra banche commerciali e d’investimento.

Da una parte furono poste le banche destinate ad erogare credito alle imprese ed alle famiglie, dall’altra quelle che svolgevano esclusivamente attività finanziarie a carattere speculativo. Per oltre sessant’anni, quindi, gli istituti di credito si sono mossi in campi distinti.

Recepita nel 1936, in Italia la legge venne abrogata nel 1993.

La pericolosa commistione fra banche commerciali e banche d’affari ha prodotto i disastri che hanno scosso le basi dell’economia occidentale, ha gettato sul lastrico le famiglie ed impoverito milioni di persone. Come se non bastasse,  i cittadini hanno dovuto mettere mano al portafoglio per pagare le puntate, sbagliate, fatte dagli speculatori al tavolo da gioco della grande finanza.

Fosse stato in vigore, il Glass-Steagal act avrebbe impedito che le conseguenze della bolla speculativa dei mutui subprime fossero scaricati sui cittadini.  La separazione tra i due sistemi, non avrebbe permesso alle banche d’investimento di far pagare ai correntisti i loro disastri.

L’assenza di banche esclusivamente commerciali ha, inoltre, condizionato la produzione. In questi anni, infatti, la resa, vera o presunta, dei prodotti finanziari ha indotto le banche a distrarre risorse alla c.d. economia reale a vantaggio delle attività speculative.

Gli unici beneficiare del nuovo corso sono stati gli “squali” della finanza.

Quella che Pound chiamava “l’ usura”, è diventata la forza dominante del mondo in cui viviamo. Una forza concentrata nelle mani di quelli, che citando Hobson, Lenin definiva “rentiers”; ovvero “persone che vivono del ‘taglio di cedole’, [che] non partecipano ad alcuna impresa e hanno per professione l’ozio”.

Un ceto, ieri come oggi, “parassitario”, completamente distaccato dal mondo della produzione.

I “rentiers”, alla Soros, hanno accumulato un immenso potere economico. Un potere tale da condizionare il destino delle nazioni. Sono loro, non i populismi, il vero pericolo per la democrazia.

Un pericolo che si può limitare mettendo ordine, nel caotico mondo della finanza. Per farlo, è necessario ripristinare le regole; a partire dalla separazione tra banche commerciali e banche d’investimento. Solo un provvedimento del genere può gettare le basi per disciplinare le forze dell’economia, adeguandole alle esigenze delle persone.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

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