Sconcerto, sorpresa, dichiarazioni a mezzo fra l'incredulo e la stigmatizzazione nei confronti del destino cinico e baro: sono state queste le reazioni più comuni in Calabria, e non solo, dopo la pubblicazione, avvenuta giovedì, dei dati annuali forniti da Svimez sullo stato di salute dell'economia meridionale, e calabrese nel caso specifico che ci interessa da vicino. Ma, forse, è arrivato il momento di cogliere l'occasione al volo e sollevare, una volta per tutte, i veli abilmente, ma neanche tanto, trasformati nei comodi panni degli alibi perfetti per giustificare qualcosa che non lo è, a maggior ragione nel pieno di una crisi che, al netto della propaganda renziana, è assai distante dal terminare la sua parabola ascendente. A fare specie, in tutta onestà, non è la dichiarazione di questo o quel politico, che nulla avrebbero potuto nella circostanza se non prodigarsi nella redditizia attività della vendita di fumo, quanto le considerazioni allarmistiche della stampa. E' ben più grave questo atteggiamento perché ruolo dell'informazione dovrebbe essere quello di "educare" l'opinione pubblica provando, nei limiti delle capacità di ciascuno, a raccontare la realtà, evitando di falsificarla per pigrizia ed autocensura. E, diciamolo in tutta franchezza: c'era forse la necessità che fossero gli impietosi numeri spiattellati da Svimez a renderci edotti sul sottosviluppo che sommerge la Calabria, oggi come ieri? Dov'è la notizia? Dov'è la novità? Probabilmente, la vera anomalia rispetto alla rassegnata quotidianità che segna questo angolo di pianeta è la consapevolezza, celata, ma pur sempre presente, che il Mezzogiorno sia ormai irrecuperabile. Troppi i danni procurati dal venefico assistenzialismo risalente all'epoca delle "vacche grasse" e che, adesso, non può più reggere perché privo delle risorse finanziarie risucchiate dalla recessione globale. Una stagnazione che, insieme ai parametri europei, ha imposto vincoli stringenti ai conti nazionali. Era chiaro fin dal principio che le conseguenze più devastanti per le regioni meridionali sarebbero arrivate anni dopo rispetto ai drammi, relativi, vissuti da Roma in su. E, certamente, non sarà questo il punto apicale delle difficoltà e dei disagi in cui si dibatte, e sempre più, si dibatterà, il Sud. Un'area che ha sempre dormito sotto il morbido guanciale della Pubblica Amministrazione (zona franca per eccellenza davanti a concetti alieni come produttività, efficacia, meritocrazia, laboriosità), in futuro resterà intrappolata nell'impossibilità per lo Stato di pompare i denari finiti nei decenni ad alimentare il culto del "minimo sindacale". Un dramma che deve essere affiancato a quello rappresentato dalla passività di una schiatta di imprenditori, fatte le debite eccezioni, che senza l'abituale caffè a braccetto con il capobastone della politica locale, nulla sarebbe stata in grado di produrre. Sono troppi, infatti, per essere considerati marginali, i casi di titolari di aziende incapaci di saper stare sul mercato, pianeta a gran parte di loro del tutto sconosciuto. Se, invece, di coltivare l'infinito lamento recriminando contro avvenimenti accaduti un secolo e mezzo addietro, imputando alle modalità di unificazione dell'Italia la storica arretratezza, culturale, sociale ed economica del Mezzogiorno, avessimo colto, tutti insieme, la sfida lanciata un paio di decenni addietro dalla Lega Nord, il corso degli eventi sarebbe cambiato. Volevano la secessione perché stanchi di essere vessati da "Roma ladrona" che sperperava denaro pubblico per alimentare le clientele meridionali? Bene, anzi, benissimo: una classe dirigente seria, consapevole della propria forza, sicura delle proprie potenzialità, avrebbe risposto: "Presente, noi ci siamo, e che federalismo fiscale sia, ma quello vero, non quella versione infernale che ha ingigantito la voracità dei "lupi famelici" seduti nei Palazzi della politica. Effettivamente, a ben pensarci, immaginare che si ergesse a paladino degli interessi strategici dei cittadini calabresi uno dei tanti mediocri imbonitori che infestano in lungo ed in largo le nostre lande, sarebbe stato un sogno impossibile da realizzare. Sebbene, anche nel ristretto perimetro dei depositari delle chiavi amministrative degli enti calabresi non siano mancati lodevoli esempi di pragmatismo e buona amministrazione. Si tratta, però, di una infima minoranza a fronte dei tanti, tantissimi, inutili collettori del consenso la cui unica preoccupazione è brigare, lecitamente ed illecitamente, per ampliare il proprio rispettivo parco buoi. E, in assenza del coraggio di cui avrebbero dovuto essere portatori gli amministratori locali, sarebbe stato quanto mai opportuno che ad alzare la testa prendendo in mano il proprio destino, fosse l'opinione pubblica. Come noto, nulla di tutto ciò si è verificato, tutt'altro. Prenderebbe troppo spazio elencare qui l'infinito rosario di indicatori che certificano, da tempo immemorabile, la presenza di due Italie, ma guai a dirlo, guai ad ammetterlo davanti allo specchio delle nostre sconfitte, perché c'è sempre un responsabile altro, c'è sempre un colpevole da additare per autoassolverci da colpe ataviche. La verità, solida come roccia di granito, tuttavia, è sotto gli occhi di tutti, senza che ci sia bisogno di affondare le radici delle riflessioni in altre ere geologiche: la testimonianza, lampante e recente, ci è regalata dall'ignavia con cui non riusciamo nemmeno a spendere i fondi provenienti dalla tanto vituperata Europa. La causa è da ricercare nella superficialità, nell'indifferenza alla custodia del bene comune, anche se preferiamo continuare a crogiolarci nelle "imperdonabili atrocità" che sarebbero state commesse dai "governanti" che avrebbero saccheggiato le regioni meridionali a vantaggio di quelle settentrionali. Indipendentemente dal fatto che questa è una versione di comodo che fior di storici ed economisti hanno contestato, carte e numeri alla mano, le domande razionali da porci vanno in tutt'altra direzione: se anche così fosse stato? Dov'era e dov'è tuttora il tanto decantato orgoglio meridionalista? Perché non ci siamo prodigati nel dare vita ad un tessuto imprenditoriale di successo, valorizzando nei fatti e non con il chiacchiericcio tipico dei perdenti, le "meraviglie naturali" di cui tanto ci riempiamo la bocca? Siamo pronti ad inalberarci solo quando ci sentiamo feriti nel nostro insulso egoismo protezionista, e allora sì, ci mobilitiamo per impedire che i Bronzi di Riace possano essere finalmente ammirati dal mondo durante l'Expo di Milano. Cosa importa se poi, terminata la bufera mediatica, restano nascosti perché custoditi nel Museo di una città dove i turisti sono una razza protetta, tanto esiguo è il loro numero? Diventiamo intransigenti se qualche esperto fa sommessamente notare che l'aeroporto di Reggio Calabria, la cui pista si allunga in mezzo agli edifici abusivi della periferia sud della città, merita di essere chiuso perché antieconomico ed in perdita costante di voli e passeggeri. Un carrozzone famelico che inghiottisce soldi dei contribuenti, ma abulico nell'essere attrattivo per il bacino di utenti, sempre potenziale per carità, elevato a totem dai politici nostrani al momento dell'innalzamento di inutili e ridicoli pennacchi. Ma sì, stracciamoci le vesti per ogni singolo centesimo di euro che riteniamo ci sia stato "rubato" e, contemporaneamente, assistiamo silenti all'impegno straordinario profuso dai veneti recentemente tormentati da un tornado. Rimboccatisi le maniche e, armati della loro proverbiale abnegazione e buona volontà, si sono immediatamente messi all'opera senza aspettare il preliminare "aiutino romano". Ovviamente hanno anche loro fatto la conta dei danni: 100 milioni di euro. Peccato che, nelle stesse ore in cui nella Capitale i detentori del "potere" si calavano le braghe davanti alla rivolta di lsu e lpu che isolavano la Calabria con sit-in organizzati sull'A3 ed all'accesso agli imbarcaderi di Villa San Giovanni, gli stessi "padroni del vapore" si voltavano dall'altra parte di fronte alle richieste provenienti dall'attiva e laboriosa provincia veneta. Perché chiunque abbia un minimo di familiarità con quelle zone sa bene che la vera differenza fra "noi" e "loro" sta tutta qui: nell'approccio imprenditoriale che chiunque, tra Rovigo e Belluno, è in grado di padroneggiare con intelligente perizia, sia esso il cameriere di un locale, la commessa di un negozio o un imprenditore che esporta in tutto il mondo. Ed è una caratteristica che si respira nell'aria girando per il Trevigiano, quasi si fosse negli Stati Uniti dove leggenda vuole che un'opportunità per mettere a frutto il proprio talento sia riservata a chiunque in omaggio al celebre "American Dream". Senza fare demagogia d'accatto, ma è un fatto oggettivo ed incontrovertibile che se a Conegliano Veneto ci imbattessimo in un mozzicone di sigaretta per terra avremmo a disposizione materiale buono per scrivere un articolo. In Calabria, Sicilia, Campania, quantità infinite di rifiuti fanno parte del panorama urbano. Cosa c'entri questa radicale differenza nel tasso di civiltà tra due popoli assoggettati alle medesime regole statuali, con i presunti soprusi commessi dagli "unificatori nazionali" non è dato capire, ma, come scritto in precedenza, aiuta parecchio per consolare le nostre piaghe, senza capire che è proprio questo immobile vittimismo ad averci fatto piombare nel baratro del nulla da cui fuggire a gambe levate. Ma, si dirà, possiamo pur sempre godere degli spettacoli offertici dalla Natura, panorami mozzafiato che estasiano: esatto, ma sono gli unici capolavori divini su cui il calabrese non ha potuto mettere mano, perché, se avesse potuto, avrebbe devastato anche quelli.