La malaria, le paludi e le bonifiche
Una bambina muore di malaria nel 2017, e nell’evolutissimo Nord. Sapremo mai le cause? Certo, è un ritorno della malaria e della zanzara anofele.
La malaria era una piaga dell’Italia: Comacchio – vi morì Dante – la Maremma “amara”, il Lazio, l’Alta Campania, e moltissime coste del Meridione. Veniamo a queste, e come si rimediò.
I governi di Carlo III e Ferdinando IV affrontarono questo problema secondo quello che può dirsi il migliore frutto dell’illuminismo: l’urbanistica intesa in senso molto lato, come scienza del territorio. L’impaludamento delle coste era dovuto al fatto che gli innumerevoli piccoli fiumi e torrenti procedevano, nell’ultimo tratto, senza controllo né argini; e, di corso troppo breve per assumere potenza, scorrevano lentamente e stagnavano. Da ciò il pericolo e disagio di abitare lungo il mare. Alcune aree come la futura Sibaritide erano il regno della morte. Quando i braccianti andavano a lavorare nel Marchesato, molti contraevano la malaria; e di uno macilento si dice tuttora “Pari ca veni e Cutrona”!
L’operazione borbonica fu di mettere mano ai corsi d’acqua attraverso, a monte, il rimboschimento; e a valle, gli argini. L’effetto fu di suscitare movimento e quindi evitare la palude; e, accelerando il flusso, consentire ai fiumi di portare detriti e terra. Si può dire che le coste ioniche, in parte sabbiose, siano un effetto di tale politica. Ci si cominciò ad affacciare sul mare, e migliorarono i commerci e la navigazione di cabotaggio. Nel 1811 Soverato era dichiarata “porto”: attracco, s’intende, non facciamo sogni preelettorali; ma era già centro di commercio; e così Siderno, Gioiosa, Roccella, Crotone, Cariati…
Uno sguardo fuori dalla Calabria, ed ecco i Regi Lagni, l’attuale provincia di Caserta e parte delle vicine, che divennero una ricchissima area agricola.
I papi, che avevano la malaria alle porte di Roma, fecero diversi tentativi. Uno di Pio V viene cantato dal Monti con il poema “Feroniade”.
Al contrario, la guerra popolare antifrancese del 1806 e fino al ’12 generò un effetto perverso: Manhès, inviato da Murat a reprimere gli insorti borboniani, ordinò, per stanarli, l’abbattimento del grande bosco di S. Eufemia, e ciò creò la palude nell’attuale Piana di Lamezia.
La politica di bonifica continuò dopo l’unità, risolvendo in parte i problemi atavici della Maremma e di Comacchio.
La “bonifica integrale” fu uno dei punti fermi del regime fascista, che mise mano all’Agro Pontino e al Meridione. Il progetto era di coinvolgere i proprietari dove possibile; o lottizzare le terre “redente” assegnandole, anche tramite l’Opera Nazionale Combattenti, a contadini. In ogni caso, la bonifica doveva avere finalità produttive e mai assistenziali; e perciò le quote vennero sempre assegnate a censo, e non gratis. Quella di Sant'Eufemia, portata a termine nel 1936, servì in gran parte alla coltivazione della barbabietola, trasformata in zucchero dal grande stabilimento oggi malinconico rottame. Lo stesso accadeva a Strongoli e altrove. La bonifica di Sibari, immane, finì nel dopoguerra.
Ecco cosa significa aver cura del territorio.
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