Siamo entrati nel clima natalizio e, diciamo la verità, riaffiorano inevitabilmente scene e momenti della nostra fanciullezza vissuta con semplicità di cuore dalla prima domenica d’Avvento, passando per l’Immacolata e Santa Lucia, per arrivare alla Novena e al Natale.
È pura nostalgia? È voglia di tornare indietro? Forse. Una cosa è certa, quando, ancora all’inizio del Terzo Millennio, tra le strade della nostra città tornano gli zampognari le emozioni sono davvero forti. Come eravamo? Quale era il nostro Natale a fianco dell’arcaico suono agro-pastorale degli zampognari.
Ai versi cantati e alla musica strumentale di tradizione che tingevano di forti emozioni sonore il paesaggio del Natale, si riconosceva un tempo un ruolo devozionale essenziale che traeva ispirazione dalla pratica della Novena, particolarmente quando questa veniva, come lo si fa ancora, officiata la mattina all’alba con la cosiddetta Missa di l’aurora, tra freddo ed anche neve nella nostra Serra San Bruno e dintorni.
Da qui sul sagrato delle chiese, fino ai presepi familiari ed artigianali allestiti in ogni casa, si irradiavano note strumentali e vocali di antica memoria che assumevano il compito di sacralizzare gli spazi ed il tempo vissuti nel segno di Gesù Bambino, espressione cristiana della nuova vita che rinasce.
Un catalogo, quello delle musiche di tradizione orale del Natale in parte ancora vivente in territori poco contaminati, che denota e appalesa i fitti scambi tra oralità e scrittura, elementi colti e popolari, riti liturgici e pratiche devozionali delle povere case.
Figura simbolo della scena musicale del Natale, certamente la più conosciuta e familiare, è quella, appunto, dello zampognaro, detto anche, in alcune aree della Calabria centro meridionale, “ciaramiddaru”, sopravvissuto miracolosamente fino ai nostri giorni, come lo testimoniano gli zampognari delle nostre contrade che puntualmente, ogni anno, da sempre, si affacciano davanti alle nostre case e portano un sorriso ai bambini e rinfrescano i ricordi degli adulti.
E già perché chi non ricorda che una volta si usava far suonare lo zampognaro proprio davanti al presepe illuminato, mentre la famiglia si raccoglieva devotamente intorno in tacita preghiera. Si usava, soprattutto le donne, recitare in ginocchio, le litanie e cantare canzoncine anche in dialetto. E, un tempo nei nostri paesi accadeva che, mentre stava suonando lo zampognaro, gli si affiancassero anche i suonatori ambulanti porta a porta per la Novena e insieme formavano una bella orchestrina con tanto di mandolino, chitarra, violino.
Era davvero bello ascoltare Tu scendi dalle stelle col suono melodioso della zampogna e le note del violino o del flauto, detto anche fischiottu confezionato alla bell’e meglio dai giovani pastori al seguito delle proprie greggi su per la montagna.
L’arcaico suono della zampogna ci rinvia all’antica offerta musicale dei pastori – suonatori, attestata da un’ampia iconografia già dal 1500. Il suono delle zampogne, relegate prima sui monti, dove i pastori ricevono la buona novella, simboleggiava il peccato da cui l’Avvento del Cristo avrebbe redento l’umanità. Oggi, per fortuna, la loro presenza è diventata importante perché chiamati a testimoniare nei tanti convegni il nostro passato, la nostra storia, le caratteristiche dello strumento.
Negli scorsi anni a Chieti l’Accademia dei Transumanti degli Abruzzi ha chiamato a raccolta zampognari da tutta Italia per tre giornate di studio e confronto.
Anche a Brognaturo, alle porte di Serra San Bruno, anni orsono, si sono radunati zampognari di tutta la Calabria per rinverdire un po’ di storia ed anche e soprattutto tracciare le linee del futuro per non cancellare ed anzi per inserire in un contesto, se si può dire, di modernità, la zampogna, “la capra che suona” per dirla con le parole di Antonello Ricci e Roberta Tucci, i quali su una loro ricerca hanno fatto ruotare, nel 2002, alcuni incontri di studio tra Crotone e Catanzaro col contributo di critici musicali e antropologi come Giorgio Adamo, Luigi M. Lombardi Satriani, Cesare Pitto e Ottavio Cavalcanti.
Si tratta, insomma, di scrollarsi di dosso l’immagine oleografica, quella che relega lo strumento pastorale per eccellenza, la zampogna appunto, entro territori della nostalgia e della memoria, per rintracciare le traiettorie di una storia etno-organologica antica; osservare, sul lungo periodo, la trama dialettica fra scrittura e oralità, tradizione colta e popolare; e, ancora interrogarsi sulle nuove identità che l’arcaico strumento assume entro le coordinate del presente.