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Le indagini si muovono in tutte le direzioni. Gli inquirenti iniziano a scavare nel passato della vittima e scoprono che vent’anni prima Demasi era stato condannato ad otto anni di galera per aver ucciso con un colpo di fucile una donna, Carmela Gallace. La pista, però, si rivela piuttosto inconsistente. Demasi, infatti, aveva sempre sostenuto di aver sparato alla cieca tra gli alberi per intimorire quelli che pensava fossero ladri. Oltre ai giudici che comminano una pena piuttosto mite, credono alla tesi anche i parenti della donna che “riallacciarono con lui buoni rapporti”.
Si cerca, quindi, di capire se l’omicidio possa essere nato nell’ambiente familiare, ma “un contadino, Antonio Nesci - che era stato il primo ad accorrere udendo il pianto del figlio della vittima - testimoniò sul sincero dolore dell’Antonio”.
Non emerge nulla, neppure dalle indagini che riguardano “due altri fittavoli, Angelo Belcastro e Domenico Caré, pure vicini, [che] non avrebbero avuto ragione alcune per commettere quel delitto”.
Scartate tutte le altre ipotesi, le attenzioni si appuntano su un uomo, “tale Ilario Cavallaro”. A spingere le indagini in quella direzione, sono soprattutto le dichiarazioni rilasciate dai “congiunti dell’ucciso” che indicano il movente in dissapori di carattere familiare. Cavallaro, infatti, nel 1942, “aveva sposato con il solo rito civile una figlia del Demasi, Rosina, allora di diciassette anni, senza vivere neanche un solo giorno con lei. Gli sposi si sarebbero stabiliti insieme al ritorno del giovane. Le cose, però, andarono per le lunghe. L’Ilario, partito per la Libia, fu fatto prigioniero dagli inglesi e solo nel ’46 rivide l’Italia”.
Rientrato dalla prigionia, “la cerimonia religiosa fu rinviata” perché lo sposo “chiedeva al suocero che assegnasse in dote alla moglie una certa somma di denaro e, in più il terreno, sostenendo che quei beni, in fondo, erano solo un indennizzo per tutti gli assegni familiari che Demasi aveva percepito, attraverso la figlia sposata ad un militare, durante quattro anni”.
Il rifiuto era stato accompagnato dalla ferma decisione di “Rosina”, la quale “pentita delle nozze, non aveva alcuna voglia di vivere con il marito e fu solidale con il padre”. L’intera vicenda aveva avuto delle conseguenze di carattere giudiziario, tali da indurre i carabinieri ad arrestare Cavallaro con l’accusa di essere l’autore dell’omicidio. Insieme a lui vengono mandati in galera, “il padre, Bruno, e i fratelli Salvatore e Rocco, poi tutti rilasciati avendo potuto essi provare che quella notte si trovavano a Serra San Bruno, loro paese di residenza”.
Anche Ilario dichiara, inutilmente, di aver trascorso la notte dell’omicidio nel paese della Certosa. Nonostante l’assenza di prove contro di lui, sulla base di un “processo tipicamente indiziario”, viene “condannato, oltre alle pene accessorie, a venticinque anni”.
Nel 1955, però, in occasione del “giudizio di secondo grado” i magistrati vogliono approfondire la questione e decidono d’indagare tutti i punti oscuri delle vicenda. Cercano, quindi, di capire per quale motivo il cadavere sia stato appeso ad una trave, ma soprattutto che cosa possa rappresentare quello strano amuleto lasciato dall'assassino. Si rivolgono, quindi, a Raffaele Corso il quale nella sua perizia scrive: “ La testuggine non è riprodotta integralmente, ma nel guscio soltanto, cioè senza la testa, la coda e le zampe. Evidentemente, l’artefice non ha voluto ritrarre il rettile vivo, come si vede in un quadro del secolo XVI, dove esso figura come emblema dell’amore felice. […] Pertanto bisogna indirizzare le indagini verso pratiche magiche locali, tenendo presente che in Calabria, come in altre regioni i superstiziosi, per ricondurre all’amore i riottosi, ricorrono alle arti della strega, la quale mette in pratica, secondo l’occasione, filtri non comuni. Qualche abile strega locale, informata degli antichi usi, avrà suggerito al delinquente l’amuleto della gioia amorosa nella forma priva di vita e cioè del solo guscio”. Lo studioso aggiunge: “ La testuggine, che viva simboleggia la fecondità, morta starebbe la sterilità. Tanto e vero che la testuggine viva si mantiene tuttora nelle case delle popolane come simbolo della feconda pace e si ritiene segno di prossima disgrazia la sua scomparsa o la sua morte”. In altre parole, la conclusione dell’etnografo è che “l’uccisore voleva indicare, anzi gridare di fronte a tutti che, colpito come uomo perché privato della sua donna, si era vendicato. Questo il filo sottile fra il delitto e l’amuleto”.
La spiegazione però, non convince “la Corte” che, in assenza di “prove precise”, assolve l’imputato.
Scarcerato il maggiore indiziato, l’omicidio resta, quindi, impunito con il risultato che la testuggine “rimarrà fra la gente di queste campagne come il simbolo del mistero che avvolge il fosco delitto dell’amuleto”.