Mastro Peppe "Stivaleda" e la "Maestranza di la Serra"
- Written by Bruno Vellone
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E’ la storia della “Maestranza di la Serra”, cantata tra l’altro dal poeta scalpellino Mastro Bruno Pelaggi, che “esportava” i suoi uomini migliori per fare grandi le industrie calabresi e nazionali. Manualità, umanità e fatica erano le caratteristiche di uomini e donne i cui visi solcati dal freddo o dal caldo a seconda delle stagioni erano fieri di vivere a contatto con il ventre di madre terra. Non è un passato cosi remoto come si possa pensare. La scure, il segone, e l’ascia serrese si sono usati fino a qualche decennio addietro nei paesi poveri della montagna calabrese. Noi abbiamo conosciuto uno mastro Peppe detto “mastro Stivaleda” la cui parabola umana racchiude in se tutte le sfumature dell’animo autentico di chi, nei boschi ha vissuto con profondità e saggezza succhiando alla propria forza e alla natura, madre o nemica, il midollo della vita.
Il duro mestiere di “mannese” di mastro Peppe affonda le radici nell’antichità e trova le sue origini nella figura che sta a metà tra l’artigiano e l’artista, il quale opera con fatica e sudore, con il solo contributo dell’esperienza e della pratica acquisita da generazioni, per sagomare a occhio il legno per mezzo dell’ascia serrese. Ma da dove nasce il suo mestiere? Durante l’infanzia, le possibilità di studiare erano poche e le necessità erano tante, per questo alla tenera età di 10 anni, il piccolo Giuseppe incominciò ad aiutare il papà nei boschi della Sila, dove viveva in baracche di legno con la propria famiglia che partiva da Serra San Bruno a primavera, quando la natura sembra svelare la ricetta della rinascita, e vi faceva ritorno a Natale. «Le baracche di legno – racconta mastro Giuseppe - che spesso dovevano proteggerci da un freddo polare generato da tre metri di neve, erano composte da quattro stanze e la cucina e le intercapedini venivano riempite da segatura che fungeva da isolante per il freddo e l’umidità. Il ritmo della vita di allora era scandito dal levarsi del sole e dal suo tramonto, infatti iniziavamo il lavoro a cottimo alle cinque del mattino per terminare il turno lavorativo alle diciotto».
Il lavoro di mastro Stivaleda consisteva nello squadrare a mano con l’ascia serrese le travi per le coperture delle costruzioni, le traverse per i binari della ferrovia dello Stato e i cosiddetti “bordonali”, cioè pezzi di abeti dell’altezza da 6 a 16 metri che diventavano gli alberi maestri delle navi della Regio Marina. «Usavamo – ricorda l’anziano mannese – un filo bagnato da una spugna impregnata di un terriccio rosso che ci permetteva di segnare le misure e i bordi dove intagliare poi con l’ascia». La produzione delle traverse, avveniva per mezzo di un procedimento particolare che incominciava con la restrizione della base di querce secolari con l’ascia e poi, con il loro successivo abbattimento per mezzo di una grande sega manuale detta “struncaturi”; dal tronco, infine, si segnavano e si estraevano il numero e le dimensioni delle varie traverse che venivano dapprima lavorate con la sega e successivamente rifinite a mano con l’ascia serrese. Le traverse cosi ultimate venivano collaudate da un ingegnere che ne stabiliva la loro destinazione. «Lavoravamo – spiega mastro Peppe – con l’ascia serrese che era costruita dagli artigiani di Serra San Bruno e che si caratterizzava per l’occhio di ferro nel cui foro veniva inserito il manico in legno, mentre la parte tagliente era di acciaio che veniva lavorato e temprato a seconda del tipo di lavoro che dovevamo svolgere. Il manico era in acacia, faggio o leccio».
C’erano quindi asce serresi per la squadratura dei tronchi, per la pulizia dei nodi e per la pulizia dei ceppi, mentre l’apposita ascia per il legno di abete era temprata in maniera più resistente proprio per la particolarità morfologica di questo legno. «La nostra – rimembra ancora mastro Stivaleda - era una vita sacrificata, da Serra San Bruno verso la Sila e ritorno, ci sposavamo per mezzo di un autonoleggio, mentre in montagna ci spostavamo a piedi e nessuno mandava i propri figli a scuola perché era necessario che tutti lavorassero per i bisogni della famiglia». In quegli anni la Sila sembrava una enorme periferia in eterno fermento, carbonai, boscaioli, mulattieri, mandriani ed ogni genere di lavoratori prestavano la propria attività, spesso anche sotto caporalato e in condizioni di sfruttamento. Gli operai lavoravano per il puro soddisfacimento dei bisogni esistenziali che li costringeva a diventare serbatoio di manodopera a basso costo di cui si avvalevano i baroni proprietari terrieri. I lavoratori, infatti, facevano la spesa nelle spezierie dei baroni e ogni sei mesi, al momento di riscuotere la paga per il lavoro prestato, lasciavano la differenza come dovuto per l’acquisto di generi alimentari presi per il sostentamento della famiglia, esisteva quindi una sorta di doppio sfruttamento da parte dei ricchi possidenti.
Dopo aver lavorato per quaranta anni in Sila e successivamente in molti altri cantieri, mastro Giuseppe “Stivaleda” si gode il meritato riposo, il simbolo più emblematico del suo duro lavoro oltre che nei pensieri lo porta nelle mani che rievocano la forma dell’impugnatura del manico dell’ascia serrese. Il contributo artigianale di mannese che “mastro Giuseppe” ha dato al territorio vibonese è da considerarsi quasi unico, infatti nell’universo calabrese dei legno oltre a racchiudere nei suoi gesti la memoria storica di questo antico mestiere, ne costituisce, attraverso i suoi lavori, che oggi come allora si possono apprezzare nel territorio che fu dei Bruzi, l’espressione più viva. Dai locali rustici che ospitano noti ristoranti dal soffitto in castagno con la travatura a faccia vista, alle coperture lignee delle splendide chiese barocche del comprensorio serrese, le tappe presso le quali è possibile vedere i suoi lavori sono veramente tante e tutte rendono omaggio a questo antico mestiere di cui Giuseppe “Stivaleda” rimarrà un maestro per sempre.