San Floro, la peste e la Calabria ancestrale
- Written by Maria Lombardo
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Tutto ebbe inizio nel settembre 1764, quando San Floro, piccolo centro della Calabria Ultra, era alle prese con un violenta ondata di peste. Mai, prima di allora, una calamità aveva fatto tanti morti. In tutto il Regno di Napoli, la peste mieteva numerose vittime. A San Floro, Borgia e nei comuni limitrofi, nonostante l’altezza e l’aria salubre, il terribile flagello non dava scampo. San Floro fu colpita in modo particolare e a nulla valsero le cure dei medici giunti per cercare di lenire le numerose morti quotidiane di bambini, donne, giovani e vecchi. Non meno profonde furono le conseguenze della morte nera nel sentimento religioso e nella sensibilità collettiva. Da quel settembre fino al maggio non si riuscì a trovare nessun rimedio, le forze spiegate dalla Corona Borbonica erano flebili e si continuava così a morire per il morbo, nonostante le misure igieniche e profilattiche. Non vi era giorno che le campane non suonassero a morte, che il puzzo dei fuochi e l’odore acre dei moribondi non invadessero le strade. Ogni giorno la cifra dei morti oscillava tra le 10 unità e le 12. I sanfloresi dell’epoca riunitesi nella chiesa di Santa Catarina Vergine, con a capo il sindaco don Cesare Zolea e altri personaggi illustri del tempo, decisero di chiedere al Patrono San Floro, la sua intercessione presso Dio affinché sospendesse il flagello della peste. Il popolo allora decise di fare voto perpetuo di partecipare, ogni domenica di maggio, ad una pubblica processione di mortificazione, con il capo cinto da una corona di spine ed in segno di ringraziamento offrire cinque rotoli di cera bianca lavorata al Santo Protettore. Tanto era l'attaccamento al Santo e tanta la voglia di onorare il voto una volta ascoltati che il 12 maggio del 1765 veniva stilato un atto notarile con rogito di notar Angelo Vincenzo Caccavari. Da quella data si cominciò ad avvertire i primi miglioramenti, infatti di li a poco la peste abbandonò definitivamente la popolazione di San Floro. Oggi sono trascorsi 250 anni e come ieri viene rinnovato quel voto solenne che gli avi si assunsero nei confronti del Santo Protettore, i cittadini sanfloresi, animati dalla stessa fede, dallo stesso amore rivivono e commemorano con lo stesso zelo quella dichiarazione di fede. La processione penitenziale è un ringraziamento per questo miracolo ottenuto. Oggi però l'attaccamento al Santo dei miracoli lo si dimostra anche con ex voto dolcetti di uova farina e glassa bianca nelle forme più disparate. All’interno della chiesa in ceste di vimini su appositi tavoli sono esposti i “Vutureddha” posti a “riscatto”. La giornata penitenziale dedicata al taumaturgo inizia allo scoccare delle dieci mattutine le campane suonano ancora a lutto, è il ricordo di quei tragici giorni. Dalla chiesa parte mesto il corteo verso la piazza, tutti seguono la statua del santo che posta su apposito palco è esposta alla venerazione dei fedeli. Ogni cittadino ha sulla testa una corona di spine e le donne anche più di una per i figli emigrati. E’ il rinnovarsi del voto solenne fatto dagli antenati e che con devozione è tramandato di padre in figlio. “Il testamento” così è chiamato l’atto notarile, è letto dal segretario comunale e tutti s’inginocchiano al passo “con ginocchia piegate”. Segue l’offerta dei ceri, tutto come in quella domenica di maggio del 1785. I rintocchi delle campane a martello annunciano il muoversi della processione penitenziale, senza musica, nel più assoluto silenzio, si canta “perdono mio Dio… Perdono Pietà…C’è ancora qualche anziana che indossa il cilicio o strette corde simbolo di penitenza, o di voto per grazia ricevuta.A sera tutti devotamente baciano la reliquia del santo a conclusione della ricorrenza. E’ una cerimonia suggestiva, una testimonianza antropologica unica nel suo genere, espressione di fede, devozione e tradizione popolare. Il citato rogito notarile e conservato presso l’Archivio storico di stato di Catanzaro(fondo notarile Caccavari), è testimonianza oltre dell’avvenimento descritto, di come fossero composte le civiche università nel diciottesimo secolo.
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