Domani l'anteprima nazionale di "Brutta cera", il film sul brigante calabrese Pietro Monaco

Domani (lunedì 14 ottobre) alle ore 21.00 (secondo spettacolo ore 22.15), in anteprima nazionale, verrà proiettato al Cinema Modernissimo di Cosenza, il film “Brutta Cera” del giovane regista calabrese Andrea Bonanno.

Un film che parla di brigantaggio: è il primo a raccontare la vera storia del brigante Pietro Monaco. La storia prende vita tra le viuzze del piccolo borgo di Macchia, frazione di Casali del Manco, lì dove Pietro visse nella seconda metà dell’Ottocento.

Le ingiustizie, le angherie dei potenti porteranno il giovane Pietro Monaco a diventare brigante e cercare riparo nei fitti boschi della Sila. In pochi anni la sua banda semina terrore ovunque diventando una vera e propria minaccia per le nobili famiglie. Al suo fianco, Maria Oliverio, una donna ferita nell’orgoglio e nel cuore, diventerà una brigantessa per amore.

Il giovane regista Bonanno ha cercato di coniugare la realtà storica dell’epoca con l’aspetto e le caratteristiche prettamente umane dei protagonisti, analizzando una vicenda sfociata nel più truce dei delitti.

“L’idea nasce nel 2009 – racconta Andrea Bonanno - con l’intento di portare sul grande schermo i nostri incantevoli luoghi e questa meravigliosa storia. Il fenomeno del brigantaggio nel nostro Sud, in particolare in Sila e Presila, ha suscitato curiosità, nascondendosi sempre dietro un alone di mistero. La trama è un intreccio tra una storia d’amore e un sentimento di rivalsa nei confronti della società del tempo, il tutto contornato dai luoghi in cui i protagonisti sono realmente vissuti. Il lavoro ha richiesto la partecipazione di circa 70 persone tra attori, figurati e tecnici”.

Domani alla proiezione al Modernissimo sarà presente il regista con il cast che ha partecipato alla produzione del film. 

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Giuseppe Musolino, il fascino misterioso di un brigante – L’antefatto

Quello che segue è il primo di una serie di articoli, nei quali verrà ripercorsa la vita avventurosa del brigante Giuseppe Musolino.

Gl’infami debbono morire; io uccido per ira; uccido perché mi rovinarono mentre io ero innocente [….]. I briganti sono uomini coraggiosi che vendicano le ingiustizie! I briganti debbono essere omicidi sì, ma onorati”.

In queste brevi, ma lapidarie parole, pronunciate da Giuseppe Musolino nel corso di un’intervista pubblicata sull’Avanti!, il 19 novembre 1900, potrebbe essere racchiusa l’intera parabola criminale di uno dei più celebri banditi della storia Italia. Una parabola iniziata per caso, ma seguita con calabrese pervicacia, fino alle estreme conseguenze.

Nato nel 1876 a Santo Stefano d’Aspomonte, Musolino sembra essere destinato a vivere un’esistenza anonima. Ma, una delle misteriose rotte tracciate dal fato, incrocia il cammino del giovane taglialegna aspromontano.

La fatale freccia del destino scocca il 28 ottobre del 1897 quando, nell’osteria paterna, Musolino incrocia il mulattiere Vincenzo Zoccali. Dall’incontro scaturisce una rissa le cui conseguenze, in un arco temporale compreso tra il 1899 ed 1901, si tradurranno in sette omicidi, nove tentati omicidi ed un’incredibile caccia all’uomo che si concluderà a poco meno di mille chilometri dalla Calabria.

La contesa che contrappone Zoccali a Musolino, non è una delle tante, banali, liti da osteria. Si tratta, al contrario, di una vicenda nella quale entra in gioco un universo valoriale d’altri tempi. Onore, lealtà, amicizia, rispetto della parola data. Sono questi, alcuni degli elementi, che hanno fatto di Musolino “l’ultimo brigante”. Non un semplice criminale, quindi, ma un uomo in lotta per affermare la giustizia naturale su quella legale.

Per comprendere appieno i sentimenti che hanno armato la mano di Musolino, bisogna fare un passo indietro.

Colui che è destinato ad assurgere alle cronache europee, all’epoca dei fatti non ha ancora vent’anni e vive con il padre, don Giuseppe il quale, dopo una vita trascorsa a lavorare da boscaiolo, una volta rimasto vedovo, nel 1893 ha deciso di aprire un’osteria a Santo Stefano d’Aspomonte, dove abita insieme ai figli: Vincenza, Anna, Ippolita, Giuseppe e Antonio.

In paese Giuseppe junior è conosciuto con lo stesso nomignolo del padre, “peddicchia”.

Nel 1896, tra Rocco Versace e Vincenzo Zoccoli, cugino ed omonimo dell’avversario di Musolino, sorge una contesa originata dal commercio delle castagne.

Il contenzioso tra i due ex soci finisce davanti al conciliatore del Comune. Zoccoli riceve soddisfazione dal giudice e per indurre Versace a saldare il debito si rivolge al cugino. Dal canto, suo Versace si fa spalleggiare dal cognato Rocco Romeo, il quale chiede aiuto a Musolino.

Nel tardo pomeriggio del 27 settembre 1897, Vincenzo Zoccoli s’imbatte casualmente in Antonio Romeo e Giuseppe Musolino.

Il mulattiere si ferma e con modi piuttosto spicci, intima a Romeo d’invitare il cognato a saldare il debito. Intervenuto a difesa dell’amico, Musolino deve rintuzzare l’ira di Zoccali che lo diffida dal prendere parte alla contesa. L’episodio sembra rimanere senza conseguenze, fino alla fatale serata del 28 ottobre 1897. Come d’abitudine, anche quella sera, Musolino entra nell’osteria gestita dal padre e dalla sorella. Seduti attorno ad un tavolo ci sono: Vincenzo Zoccali, il carbonaio Luigi Prioli ed i commercianti di legname Pietro Sofi e Antonio Surace. Secondo alcune versioni, Zoccali avrebbe offerto da bere a Musolino. Quest’ultimo avrebbe declinato l’invito, provocando la reazione del primo. Rimandare al mittente il vino, nel codice delle bettole, rappresentava una manifestazione di sommo disprezzo.

Zoccali, quindi, avrebbe invitato Musolino a seguirlo all’aperto per un chiarimento. Una volta fuori, dalle parole si passa ai fatti e saltano fuori i coltelli.

Al processo Musolino racconterà: “A un cento e più passi, vi era la casa dello Zoccali; quivi, Zoccali estratto un peccia-parde (una specie di ago dalla grossezza poco meno del mignolo e lungo una trentina di centimetri, munito di manico) mi aggredì; a lui si unì; sopraggiungendo, il fidanzato di sua sorella il quale si fece sotto con un rasoio. Io cercai di parare i colpi con la mano sinistra e ricevetti parecchi colpi in quella mano tanto che mi fu gravemente ferita; atri colpi riportai sul corpo, e un altro mi bucò l’orecchio. In questo punto sopraggiunse mio cugino Nino, […]; egli, per liberarmi, tirò due colpi in aria che andarono a vuoto e che furono causa della sua condanna a otto anni di reclusione”.

L’intervento del cugino, Antonio Filastò (Nino), che per aver sparato i due colpi di pistola verrà arrestato e successivamente condannato ad otto anni di reclusione, permette a Musolino di conquistare la strada di casa.

Il 29 ottobre, verso le 4 del mattino, mentre sta per entrare nella stalla, Zoccali viene bersagliato a colpi  di fucile. A quel punto qualcuno avrebbe detto: “Mannaia, neanche questa volta sei morto”; poi un’altra voce, accompagnata da quattro colpi di pistola, “eccoti anche questa”.

La mattina successiva Zoccali va in caserma a denunciare Musolino ed il cugino, Francesco Filastò, accusandoli di aver premuto il grilletto contro di lui.                                                                                                                                                                                                                                                        (1 – Continua)

 

Articolo pubblicasto su: www.mirkotassone.it

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La leggenda di Momo, amore e morte di un brigante

Le memorie popolari calabresi concedono molto spazio ai briganti, che, di là dalla realtà storica, acquistano alone di leggenda e divengono figure mitiche. San Sostene ricorda Momo o Mommo (Gerolamo), di cui si sa che aiutò una donna nella neve, e resta il detto “mu t’aiuta Momu”; e che morì per amore.

 Ci sono tutti gli elementi perché Ulderico Nisticò ne faccia un lavoro teatrale, e questo va aggiungersi ai precedenti di grande successo: Il pane di Giuda e L’incanto della stella. L’ottima regia è di Franco Procopio.

 L’ambientazione storica, dopo un importante antefatto ai tempi della Santa Fede (1799), è l’invasione francese del 1806, contro cui si sollevano i Calabresi fedeli a re Ferdinando di Borbone; mentre altri, i “giacobini”, si schierano con i re napoleonidi, Giuseppe Bonaparte e poi Gioacchino Murat.

 La leggenda di Mono s’intreccia, nella trama di Nisticò, con la credenza nelle Malombre, “morte con gli stessi appetiti delle donne mortali”. Il brigante chiede la loro protezione, promettendo in cambio carne umana; e giurando di non amare mai. Le Malombre, infatti, odiano l’amore.

 I Francesi bruciano Sant’Andrea che ha combattuto contro di loro. Maddalena e la figlia Sofia trovano rifugio presso i briganti. Cicco, il luogotenente di Momo, invia una spedizione contro il nemico. Con questo espediente teatrale, si narrano vicende storiche reali: la strage di Francesi a Parenti; la rivolta di Soveria Mannelli; i saccheggi francesi di Gasperina e Chiaravalle; la grande battaglia di Maida; l’assedio di Amantea comandata dal Mirabelli; le bande di Santoro Re Coremme, Falsetti Centanni, Gualtieri Panedigrano, prete Papasodaro, padre Michele Ala, padre Rosa, de Michelis, Vizzarro…

 Compaiono figure di forte spessore: i briganti Cicco, Teodoro, Marziale; Santina, invano innamorata di Momo; la disperata e feroce Carmela; il ragazzo Sostene, il vecchio Sostene; gli zingari… e un misterioso personaggio, Nicodemo, sacrestano della chiesetta e votato a difenderla con le armi se qualcuno la offendesse.

 Tutti questi elementi confluiscono nell’epica e tragica conclusione di amore e morte, come recita il prologo dell’opera.

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Sui meridionali aveva ragione Cesare Lombroso

 Marco Ezechia Lombroso era un ebreo di Verona, ivi nato nel 1835; per oscurare l’Ezechia giudaico gli sarebbe bastato Marco, però, nel dubbio, si fece chiamare Cesare. Resta dunque il sospetto che ce l’avesse con gli Ebrei, stando così in numerosa e qualificata compagnia di pensatori parimenti di sangue ebraico: san Paolo, Torquemada, Marx, Freud… Scopertosi romanamente Cesare, fece il medico militare dell’esercito sardo, poi italiano, ed ebbe a che fare con gli insorti detti briganti. Qui s’improvvisò antropologo. Prestatemi attenzione. L’illuminismo è l’infanzia della scienza, con qualche importante intuizione; il positivismo (seconda metà dell’Ottocento) ne è l’adolescenza, e mescola il razionalismo con le emozioni: madame Curie e i suoi amici la sera evocavano i morti, solo che chiamava ciò non spiritismo ma mesmerismo e magnetismo animale. Ignoravano, allora, ogni nozione di genetica seria, e ci vorrà quasi un secolo per avere idea del DNA. Si contentavano degli aspetti meno importanti, e meno scientifici, dell’analisi antropologica: colore della pelle, forma del cranio… Il razzismo era un dogma. Kipling sosteneva seriamente “il fardello dell’uomo bianco”, per cui gli Inglesi dovevano incivilire il mondo; i Francesi, nelle loro sporadiche scuole africane, insegnavano, in francese, le improbabili glorie di Vercingetorige e una versione edulcorata di Waterloo; gli Americani avevano risolto il problema indigeno con lo sterminio e le riserve; eccetera. Lombroso affrontò, con tali premesse, il problema dei briganti: com’era possibile che i giacobini del 1798 e i piemontesi del 1860, che venivano a liberare i Meridionali, venissero accolti a fucilate invece che a fiori e donne disponibili? Spiegazione chiarissima: dalla forma del cranio, si vede che sono criminali. Si fece dunque fornire crani; e, per levarselo di torno, gliele rifilarono di ogni genere; misurò, e scoprì la delinquenza ereditaria. Poi si narra che dicesse una cosa simile anche di Alessandro Manzoni. Il quale, detto inter nos, le sue turbe psichiche le vantava, eccome! Comunque, nel complesso Lombroso non aveva tutti i torti, quando diceva che i Meridionali abbiamo tare ereditarie; solo che sono il contrario di quello che pensava lui. Noi non siamo intellettualmente inferiori, ma proprio l’opposto: siamo molto, ma molto superiori intellettualmente a qualsiasi altro popolo del mondo. Di conseguenza, la nostra nettissima e inguaribile inferiorità: infatti, noi, invece di fare, pensiamo. I risultati delle nostre nebbie mentali sono sotto gli occhi, e la Calabria, più intelligente ancora del resto del Sud, è l’ultima d’Europa, e, pensa oggi pensa domani, la recente è che perdiamo 20 milioni di euro di fondi europei per incapacità della Regione di scrivere due righe. Mascalzoni! Ah, se avessimo un Marco Ezechia Cesare Lombroso! Altro che museo dei crani, farebbe un museo degli imbecilli intellettuali con laurea.

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Giuseppe Musolino, l’ultimo brigante uccise anche nelle Serre

E’ stato considerato, da più parti, l’ultimo dei briganti. Un uomo in lotta per affermare la giustizia naturale su quella legale. A lui sono stati dedicati libri, articoli di giornale, film e persino un’ode da Giovanni Pascoli. La parabola di Giuseppe Musolino ha caratterizzato l’arco temporale compreso fra 1889 e 1901, quando è diventato il più celebre brigante italiano. A far lievitare la sua fama e con essa la taglia posta sul suo capo (passata da 100 a 20 mila lire), furono le sue gesta. Autore di sette omicidi compiuti e nove mancati, Giuseppe Musolino era nato nel 1876. Destinato, molto probabilmente, ad un’esistenza anonima, la vita del taglialegna di Santo Stefano d’Aspromonte subì una decisiva virata il 28 ottobre del 1897, in seguito ad una rissa scoppiata in un’osteria. Protagonisti della tenzone, i fratelli Vincenzo e Stefano Zoccali, da una parte e Antonio Filastò e Musolino dall’altra. Sembra una rissa come tante, se non fosse che, il giorno successivo, qualcuno ferisce a fucilate Vincenzo Zoccoli. Sul luogo del tentato omicidio viene trovata la coppola di Musolino che verrà arrestato, sei mesi dopo, a Reggio Calabria dalla guardia municipale Alessio Chirico. Il processo, apertosi nel 1898, si conclude con la condanna a 21 anni. Determinanti, in fase di giudizio, le false testimonianze di Rocco Zoccali e Stefano Crea. La detenzione dura poco poiché, il 9 gennaio 1899, insieme ad altri tre compagni, Musolino riesce a scappare dal carcere di Gerace Marina, l’odierna Locri. Nel volgere di poco meno di tre mesi tutti gli evasi verranno rintracciati ed arrestati. L’unico a sfuggire alla cattura é Musolino che, una volta libero, anziché cercare riparo all’estero, inizia a consumare la vendetta che aveva giurato di compiere al termine del processo. Una vendetta implacabile che insanguinerà anche il territorio delle Serre, dove Musolino arriverà nel mese d’agosto del 1899 per colpire il suo nemico principale, Vincenzo Zoccali. Dopo aver ucciso, in appena otto mesi, cinque persone ed averne ferite gravemente altre quattro, il brigante abbandona il suo covo aspromontano per dirigersi sul massiccio delle Serre. Indossati giacca e pantaloni di velluto grigio, con in testa un cappello e sulla spalla il fucile Vetterli, la sera del 26 luglio Musolino lascia il suo rifugio. Seguendo tratturi, mulattiere e vecchi passi, arriva nella provincia catanzarese con l’intento di eliminare Vincenzo Zoccoli il quale, dopo essersi inizialmente rifugiato a Reggio, ha raggiunto il resto della famiglia, trasferitasi a Gerocarne in seguito all’attentato dinamitardo con il quale Musolino, a maggio, ne ha distrutto la casa. Al termine di quattro giorni di cammino, l’1 agosto arriva nel cuore delle Serre. Qui si muove senza grandi precauzioni, anche perché non esiste nessuna foto segnaletica che possa permettere ai carabinieri di riconoscerlo. Leggenda vuole che il brigante sia passato da Spadola, dove avrebbe comprato le sigarette e si sarebbe fermato brevemente a parlare con la proprietaria della rivendita; mentre poco fuori paese avrebbe acquistato delle ricotte da Francesco Tassone (bisnonno materno del direttore del Redattore, Bruno Vellone) al quale, nell’atto di dargli il resto, avrebbe risposto: “ A galantuomu non si torna riestu”. Non si tratta di semplice memoria orale, gli episodi trovano, infatti, riscontro nella documentazione custodita nell’archivio del Museo storico dei carabinieri a Roma. La mattina del 7 agosto, Musolino è a Gerocarne, appostato lungo la strada che conduce in un fondo del bosco “Marano” dove Vincenzo Zoccali ha trovato lavoro. Nascosto dietro un cespuglio, vede sfilare davanti al mirino del suo fucile decine di carbonai. Verso mezzogiorno, ad attirare la sua attenzione è un ragazzo, vestito con una giacca marrone ed un paio di pantaloni di velluto, che conduce due muli. Nonostante il cappello a larghe tese ed i folti mustacchi, riconosce, Stefano Zoccoli, fratello del suo acerrimo nemico. Senza indugio esce dal nascondiglio e gli si para innanzi. Riconosciutolo, il ragazzo carca disperatamente di scappare. La vendetta di Musolino è implacabile. Stefano Zoccoli cade ferito da una fucilata che lo attinge alle spalle mentre cerca di scavalcare un muretto. Ricaricato il fucile, si avvicina al moribondo e lo finisce con un colpo allo stomaco. Rientrato da Gerocarne, il 19 agosto è a Sant’Alessio dove uccide Alessio Chirico, la guardia che lo aveva catturato. Molto probabilmente, dalle montagne delle Serre Musolino transita anche nel gennaio del 1901, quando a Fabrizia viene arrestato Stefano De Lorenzo, uno dei banditi che, il 9 marzo 1900, insieme a Musolino ed a Giovanni Iatì era riuscito a sfuggire alla cattura alla grotta “Mingioia”. Nel paese delle Serre, De Lorenzo, viene arrestato dai carabinieri mentre con un sacco in spalla, nel quale verranno trovate  una scure e numerose cartucce, si sta dirigendo verso monte Pecoraro. Il sospetto, seppur non confermato, è che si trattasse di rifornimenti destinati a Musolino il quale, in seguito all’imponente dispiegamento di forze sul territorio è costretto a cercare riparo fuori degli ormai insicuri rifugi abituali. Con l’arrivo al Ministero dell’Interno di Giovanni Giolitti, il 15 febbraio 1901, il cerchio delle forze dell’ordine si stringe e Musolino deve lasciare la Calabria. Verrà fermato ad Acqualagna, non lontano da Urbino, il 9 ottobre 1901, quando i carabinieri, Amerigo Feliziani e Antonio Laserra, senza averlo riconosciuto riusciranno ad arrestarlo perché rimasto impigliato in un fil di ferro. Trasferito, il 24 ottobre, nel carcere di Catanzaro con un treno speciale, Musolino verrà giudicato e condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Lucca. Rimarrà nel carcere di Portolongone fino al 1946 quando, in seguito al riconoscimento dell’infermità mentale, verrà trasferito nel manicomio di Reggio Calabria, dove morirà il 22 gennaio del 1956. La breve ma intensa parabola criminale di Musolino sembra inverare una celebre frase Walter Benjamin: “Anche se non si distinguessero in  nulla dagli altri criminali, i briganti resterebbero pur sempre i più nobili tra i delinquenti, perché sono gli unici a possedere una storia”.

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I Briganti nelle Serre. I nomi dei ricercati di Spadola, Brognaturo e Simbario

Dopo aver sbaragliato gli avversari ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, divenuto padrone incontrastato dell’Europa continentale, decise di liberarsi, anche, della monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. Le conquiste dell’imperatore d’Ajaccio, ogni volta, mettevano in moto un collaudato meccanismo di spartizione che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani”, per poco meno di due anni, toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Una volta incoronato re di Spagna, il fratello di Napoleone lasciò la corona di Napoli al cognato, Gioacchino Murat, marito della sorella Carolina, il cui regno si concluderà, il 2 maggio 1815, con la sconfitta a Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. Nella guerra senza quartiere la Calabria fu in prima fila. Ad insidiare le truppe francesi i numerosi briganti che, favoriti dall’orografia e dalla fitta vegetazione, si cimentavano in continue azioni di guerriglia. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, i paesi situati sull’altopiano serrese diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. I boschi delle Serre divennero, quindi, rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Molti furono uccisi, altri arrestati, di altri ancora non si seppe più nulla. E’ difficile dire quanti e chi fossero, tuttavia, almeno parzialmente la lacuna può essere colmata grazie alla “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta risale, molto probabilmente, ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma dell’Intendente Colletta ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa impossibile, abbandonata nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. Ad aprire la “Nota” un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Spadola, Brognatuto e Simbario, la “nota” riporta complessivamente 26 persone, tra le quali figurano anche tre donne. Questi i nomi, corredati dai soprannomi,  dei ricercati:

- (Simbario) Francesco Nardi Marta; Oliva Bertucci;Vincenzo Nardi Marta; Stefano Nardi Marta; Giuseppe Bertucci Occhiulia; Fortunato Mardi Mastro Gennaro; Vitantonio Nardi Mastrogennaro; Antonio di Nardo di Renzo; Francesco Polito Cici; Bruno Andreachio; Bruno Spina; Orsola Carello; Vito Valente; Diego La Caria; Elisabetta Timpani; Domenico Pavone; Francesco Polito Grota;

- (Spadola) Domenico Vavalà; Giuseppe Tassone di Domenico; Nicola Arena; Nicola Papa; Bruno Pirino e Francesco Primerano;

- (Brognaturo) Francesco, Nicola e Pietro Valente.

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Serra ed i Briganti. I nomi dei serresi ricercati dai francesi

Dopo la vittoria ad Austerlitz, il 2 dicembre 1805, Napoleone, ormai padrone dell’Europa continentale, decise di porre fine alla monarchia borbonica invadendo il regno di Napoli. In seguito ad ogni conquista, l’imperatore d’Ajaccio metteva in moto un collaudato meccanismo di spartizione  che vedeva protagonisti i componenti del suo numeroso clan familiare. Ai “napoletani” toccò in sorte, quale nuovo sovrano, Giuseppe Bonaparte. Un regno breve, destinato a durare poco più di due anni, fino a quando il fratello maggiore di Napoleone, non venne incoronato re di Spagna. Al suo posto, venne inviato Gioacchino Murat i cui meriti di guerra erano stati accresciuti dalle nozze con Carolina Bonaparte. Il regno del cognato di Napoleone si concluderà il 2 maggio 1815 con la sconfitta di Tolentino. L’arco temporale compreso tra il 1806 ed il 1815, passato alla storia come decennio francese, è stato caratterizzato da lutti, devastazioni e ribalderie d’ogni genere. Una lunga guerra senza quartiere, animata, da una parte, dai soldati francesi desiderosi di ristabilire l’ordine e dall’altra dai cosiddetti briganti, la cui lotta era sostenuta dalla corte di Ferdinando IV di Borbone, che dalla Sicilia, dove si era ritirato, grazie al sostegno inglese cercava di riprendersi il Regno, fiducioso di riuscire a replicare i fasti del 1799 quando, le armate della Santa Fede, guidate dal Cardinale Fabrizio Ruffo, avevano restaurato la monarchia dopo aver scacciato i francesi. La cruenta lotta vide, quindi, in prima fila la Calabria dove i briganti, favoriti, dalla natura del territorio e dalla fitta vegetazione riuscivano a muoversi con disinvoltura tenendo in scacco i soldati francesi. Il sangue dei morti, da una parte e dall’altra, intrise la terra di ogni contrada, le Serre non furono risparmiate. Anzi, come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria redatta dai cappellani della chiesa Matrice di Serra, la cittadina della Certosa ed i centri limitrofi diedero un contributo piuttosto significativo alle ragioni della rivolta. Molti, infatti, “definendosi realisti, iniziarono a vivere di ruberie” ed in ”tanti iniziarono a battere le campagne assumendo il nome di ‘Briganti’”. Si trattava di “uomini senza legge che fin da subito si dichiararono nemici aperti dei giacobini, ossia dei sostenitori dei francesi”. Fu così che da luoghi di preghiera e meditazione, i dintorni di Serra divennero rifugio di bande di briganti provenienti da tutto il circondario. Gli episodi più cruenti che interessarono direttamente la cittadina bruniana furono due. Il primo risale al 24 maggio 1807 quando, quattro giorni prima della Battagliata di Mileto, la guarnigione francese di stanza a Serra era andata a dare manforte ai propri commilitoni in vista dello scontro con l’esercito napoletano. Fu in quell’occasione che “150 briganti, guidati da un certo Giuseppe Monteleone, detto Ronca” cui “si erano uniti altrettanti fabrizioti che disarmati speravano di prendere parte al saccheggio” entrarono a Serra e per “otto giorni” compirono assassini e saccheggi. A mettere fine alle devastazioni furono i serresi che avevano combattuto con i francesi a Mileto. Dopo la battaglia, ottenuta l’autorizzazione da parte del comandante delle truppe napoleoniche, generale Reynier, tornarono precipitosamente a Serra e misero in fuga i briganti. Il secondo episodio, invece, risale al 1811 quando, in seguito all’uccisione di due soldati francesi, il generale Manhés, oltre a fare chiudere le chiese, fece esiliare a Maida i preti fin quando non fossero stati consegnati i briganti. Dei ricercati di cui i francesi pretendevano la consegna sono arrivati a noi, tramite la “Platea”, due soli nomi, quelli dei “due Pasquali”, ovvero Pasquale Catroppa e Pasquale Ariganello, gli irriducibili uccisi nel sonno, il 12 aprile 1811, da due pastori di Pazzano che gli avevano dato ospitalità. I briganti serresi, attivi tra il 1806 ed il 1811, furono però molti di più. Complessivamente si tratta di trentadue persone i cui nomi sono contenuti in un documento, la “Nota de’ briganti in campagna, compilata secondo il Decreto del I Agosto 1806, richiamato in vigore con altra Sovrana disposizione data dal Campo del Piale”. Il documento, firmato dal Regio procuratore generale presso la Corte di Calabria Ultra, Giovanni La Camera, dal comandante la Provincia Battiloro e dall’Intendente Pietro Colletta verosimilmente risale ad un periodo compreso tra il 9 settembre 1809 ed il 26 settembre 1810. A farlo ipotizzare, la firma apposta da Colletta in qualità d’Intendente ed il riferimento al “Campo di Piale”. Il primo, infatti, ricevette la nomina il 9 settembre 1809, mentre il secondo cessò d’esistere il 26 settembre 1810. Il “Campo di Piale” era stato allestito da Murat sulle alture dell’attuale Villa San Giovanni con l’intenzione di conquistare la Sicilia. Un’impresa giudicata impossibile ed abbandonata proprio nel corso degli ultimi giorni del settembre 1810. La “Nota” si apriva con un preambolo: “Ogni individuo che si troverà inscritto nella nota suddetta, avrà la facoltà tra gli otto giorni dalla pubblicazione di essa, di presentarsi o al Comandante Militare, o all’Intendente, o al Sotto – intendente del suo distretto, per reclamare contro l’inscrizione suddetta, rimanendo in arresto fino alla giustificazione del richiamo. Spirato detto termine, ogni individuo che non avrà reclamato in persona, sarà in caso di arresto trattato conformemente alle disposizioni degli articoli suddetti. I beni dei briganti scritti nelle dette note saranno confiscati, ed i briganti medesimi saranno trattati come fuor giudicati, e condannati a morte”. Per quanto riguarda Serra, la “nota” riporta complessivamente 32 nominativi i cui cognomi, in molti casi, sono ancora presenti nella cittadina della Certosa. Di seguito i nomi, in alcuni casi corredati dai soprannomi, dei briganti Serresi attivi fino al 1811: Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa (i “due Pasquali”), Bruno Barbara, Antonio Pace Spito, Pietro Valente del Cardeo, Giuseppantonio Tosto, Rocco Scoleri, Annibale Tedesco, Raffaele Pisani dello Zoppo, Domenico dell’Apa Fociliere, Domenico Crispo Lupo, Bruno Mannella, Rocco e Fortunato Pisano, Gennaro e Giuseppe Raghiele, Biagio Pelaja, Rocco Vellone, Giuseppe Figliuzzi, Salvatore Pasquino, Salvatore Tucci, Raffaele Scrivo, Biagio e Salvatore di Francesco, Biagio e Raimondo Greco, Pasquale e Francesco Zaffino, Domenico Rizza Tirri, Michele e Francesco Condeloro, Pasquale Purria,

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Serra, chiuse le chiese, esiliati i preti. La vendetta di Manhés

Narrano le cronache che, nell’anno 1811, allorquando in Calabria faceva conoscere la sua arrogante  alterigia il poco clemente potere installatosi all’ombra della tricolore coccarda transalpina, nella tranquilla cittadina bruniana sia accaduto un avvenimento singolare.

Quel piccolo paese immerso trai i boschi delle Serre, già all’epoca conosciuto per la sua Certosa, peraltro distrutta dal terribile terremoto del 1783, era alle prese con un fenomeno tipico di quegli anni tenebrosi e tormentati dalla spietata dominazione straniera.

Nelle foreste circostanti avevano stabilito, infatti, la loro dimora decine di briganti, figure a metà strada tra il delinquente ed il patriota che tenevano in ambasce le dure guarnigioni napoleoniche.

Un dettaglio, inserito nel contesto generale di quello che la storiografia ha chiamato il “Decennio francese”, il periodo storico iniziato, nel 1806, con l’invasione napoleonica del Regno di Napoli e concluso, nel 1815, con la cattura e la fucilazione di Gioacchino Murat.

Un periodo nel corso del quale la Calabria fu travolta dalla potenza delle dirompenti forze in campo. Da una parte, la soldataglia francese che si muoveva con lo spirito tipico dell’esercito d’occupazione, dall’altra gli agenti borbonici, sostenuti dall’oro inglese, che dalla Sicilia alimentavano l’ansia di rivincita di re Ferdinando e della regina Carolina.

Le continue vessazioni e gli oltraggi finirono per scatenare il risentimento della popolazione.

In una situazione del genere, molti andarono ad alimentare il fenomeno del brigantaggio. In mezzo rimase la “zona grigia” quella che, più di ogni altra, subì gli effetti nefasti di una lotta spietata nella quale, il più delle volte, non si facevano prigionieri.

Fu in questo contesto, che anche la paciosa Serra si trovò travolta dagli eventi.

Tutto avvenne nel volgere di pochi giorni, a partire dal 2 marzo 1811, quando tre briganti, nella speranza di ottenere un salvacondotto, si rivolsero a tale “Raffele Timpano del Paparello”.

In assenza del comandante Voster che aveva ai suoi ordini la guarnigione serrese, i soldati francesi erano, momentaneamente, sottoposti al tenente Gerard.

Il “Paparello”, accompagnato dal giudice di pace, Bruno Chimirri, dal comandante della guardia civica, Domenico Peronacci e dal civico Giuseppe Amato, raggiunse l’alloggio del comandante francese dove c’era anche il maresciallo Ravier.

L’intenzione della delegazione era di fare da tramite tra i briganti ed i militari transalpini.

L’operazione, però, si complicò quasi subito.

I due soldati, infatti, avevano alzato il gomito. Avvinti al trono di Bacco, anziché, cercare di capire la situazione, consegnarono una pistola, ciascuno, a Peronacci ed a Chimirri e si misero in marcia. La situazione precipitò, quando, Gerard e Ravier provarono a fare irruzione nella baracca nella quale si trovavano i tre briganti, che li freddarono senza pensarci troppo. Lanciato l’allarme, sul posto arrivò la Guardia civica che, nel corso della sparatoria in cui ci rimise la pelle il povero Domenico Jorfida, uccise i briganti.

Un ufficiale ed un sottufficiale morti erano un’onta troppo grande da sopportare. Così, un gendarme francese salì in groppa ad un cavallo per andare, a Nicastro, ad avvisare dell’accaduto lo spietato generale Manhés, cui Gioacchino Murat aveva affidato il compito di reprimere il brigantaggio.

Da Serra partì, anche, una delegazione con l’intento di presentare un circostanziato rapporto.

«Ricevuta una lettera stilata dall’intendente – si legge nella “Platea” - il generale che “ non era un uomo ma un diavolo vestito di carne umana”, strappò la missiva senza neppure leggerla».

Del resto, Manhés era un ufficiale dai modi spicci, un soldato forgiato nella dura temperie delle campagne napoleoniche. Proprio lui che aveva ricevuto la Legion d’onore, dopo la battaglia di Austerlitz, non poteva tollerare l’oltraggio di aver perso due uomini in uno sperduto paese della Calabria.

Così, lasciati trascorre un paio di giorni, prese con sé una ventina di dragoni e mosse alla volta di Serra, intenzionato a risolvere la questione a modo suo.

Appena arrivato, senza perder tempo, fece impiccare il povero Raffele Timpano “del Paparello”, poi il 10 marzo, mise in atto una misura inattesa, chiuse le chiese e fece “deportare” la numerosa “guarnigione” di preti acquartierata nel borgo di san Bruno.

Il bando con il quale vennero preclusi i luoghi di culto non lasciava dubbi interpretativi.

«Le chiese tutte del comune di Serra saranno serrate, e le campane legate, poiché il culto sarà sospeso in esso comune fino alla distruzione del brigantaggio. In conseguenza non vi sarà amministrazione di sacramenti, e perciò i preti tutti del comune di Serra si porteranno a Maida finché i loro briganti saranno distrutti».

Certo, fosse accaduto oggi, un bel ricorso al Tar avrebbe vanificato il provvedimento prima che venisse pubblicato.

Ma quelli non erano tempi per legulei o azzeccagarbugli.

Così, nel paese definito da Norman Douglas “il più bigotto della Calabria”, il proclama non tardò a manifestare gli effetti sperati.

Alla partenza di Manhés, i serresi colpiti dall’inusitata misura, scelsero da che parte stare.

Senza perdere tempo, con un raro esempio di efficienza teutonica, si misero immediatamente sulle tracce dei briganti.

Accerchiati, impossibilitati a ricevere rifornimenti, gli uomini alla “macchia” furono costretti, uno alla volta, ad alzare bandiera bianca. Il “cordone sanitario” stretto attorno ai boschi fu così serrato da spingere qualche brigante al cannibalismo, come conferma il rinvenimento  del “ cadavere di un capo brigante al quale era stata asportata la carne delle cosce”.

Alla fine di marzo, i briganti erano stati uccisi, catturati o scacciati. Gli unici due sui quali sembrava impossibile mettere le mani erano, Pasquale Ariganello e Pasquale Catroppa, detti “i due Pasquali”.

Come spesso accade in situazioni del genere, dove non possono le armi, possono i denari.

“I due Pasquali”, avevano lasciato le montagne di Serra per spostarsi sul versante sud orientale del massiccio delle Serre, nei boschi compresi tra Bivongi e Pazzano, dove avevano trovato rifugio nella capanna di due pastori pazzanesi.

Ma la notte del 12 aprile 1811, i due anfitrioni, in cambio della taglia di 200 ducati, li uccisero nel sonno.

Secondo alcuni, pare che i due “Pasquali” sarebbero stati assassinati in un podere denominato “Areto” dove avevano sostano prima di raggiungere una barca che da Monasterace avrebbe dovuto condurli lontano dalla Calabria.

A tal proposito, narra un aneddoto, ma forse è solo una leggenda popolare, che uno dei due briganti portasse con sé un giacca.

Com’era costume, all’epoca, l’assassino prendeva all’ucciso tutto ciò che gli potesse tornate utile. Così, uno dei pastori, s’impossessò della giacca e la portò ad un sarto di Bivongi per farla accorciare, in maniera tale da poter esser indossata dal figlio.

Durante le operazioni sartoriali, ben occultata sotto la fodera, sarebbe saltata fuori una gran quantità di banconote, che permise al sarto di cambiar vita.

Lasciati da parte gli aneddoti, quel che è certo è che, una volta informati della cattura dei “Pasquali”, i serresi, non persero tempo ed il 14 aprile, reclamarono ed ottennero la restituzione delle chiavi delle chiese e con esse il ritorno di tutti i sacerdoti proscritti da Manhés.

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