Piminoro, il villaggio di serresi e fabriziesi d'Aspromonte

La storia dell’emigrazione serrese è lunga e inenarrabile. Dall’altipiano delle Serre torme di gente sono partite per popolare gli angoli più remoti del pianeta. Delle migrazioni iniziate intorno agli anni Settanta dell’Ottoccento si ha una discreta mole d’informazioni, anche in ragione dei numeri che le hanno caratterizzate. Piuttosto sconosciuta, invece, è la storia delle migrazioni interne, quelle che hanno portato gli abitanti delle Serre a spostarsi all’interno del territorio calabrese. Il motivo delle partenze è sempre rimasto identico, il lavoro; tanto più che i serresi di un tempo erano piuttosto ricercati per tutte le attività connesse alla filiera del legno. Boscaioli, bovari, carbonai, venivano “arruolati” ovunque per prestare i loro servigi. Il più delle volte, la partenza era determinata dalle migliori condizioni economiche offerte in alcune aree, come ad esempio la Sila catanzarese, nei cui paesi non è infrequente imbattersi, ancora oggi, in persone conosciute come i “sirrisi”.  In questo loro peregrinare, gli abitanti delle Serre hanno dato vita anche a qualche nuovo insediamento, dove ancora oggi si conservano tradizioni, lingua e costumi ormai spariti nei paesi d’origine. Un caso del genere è facilmente riscontrabile sull’Aspromonte, non lontano dall’altopiano di Zervò, nel territorio di Oppido Mamertina, dove sorge la frazione di Piminoro. Il villaggio, nel quale oggi risiedono un paio di centinaia di abitanti, è una diretta filiazione della Serre. Camminando per le sue strette stradine, l’idioma che si sente parlare non è il reggino, ma il “serrese”. Come sia possibile è presto detto. L’insediamento deve la sua origine al vescovo Alessandro Tomassini che, nel 1792, diede avvio alla costruzione di una sede estiva per i seminaristi. L’idea di realizzare la costruzione era nata in seguito alla presa di possesso della diocesi. Succeduto a monsignor Spedaliere, originario di Guardavalle, Tomassini giudicò la nuova sede vescovile “cupa e solitaria, e il suo aere non molto salubre per crudeltà di terreno e per prossime acque stagnanti”. Il timore della malaria, indusse, quindi il vescovo a cercare un’aria salubre dove far studiare i seminaristi durante i mesi estivi. Venne così individuata una collina, distante da Oppindo poco più di due chilometri. Completata l’edificazione del seminario estivo, il monsignore pensò di popolare quel luogo ameno in estate, ma aspro e inclemente in inverno. La zona montuosa richiedeva persone avvezze a vivere e sopportare i disagi e le insidie dei lunghi inverni montani. Sarebbe stato difficile far trasferire uomini e donne abituati a crogiolarsi al tepore del sole della pianura. Servivano persone forti, dure, resistenti al freddo ed alla fatica. In altre parole servivano i “serresi” di un tempo. Il vescovo reclutò, quindi, un gruppo di carbonai serresi che, fatti armi e bagagli, partirono per “fondare” quello che sarebbe diventato il loro paese. Il villaggio s’ingrandì rapidamente, poiché come capita nei centri di nuova fondazione, serviva tutto. I primi abitanti fecero affluire parenti e conoscenti. Il passa parola dovette essere particolarmente efficace, tanto che iniziarono ad arrivare nuovi “coloni” provenienti non solo da Serra, ma anche dai centri limitrofi. Il paese che, insieme a Serra, offrì il contributo più significativo, fu Fabrizia, ovvero il comune che allora comprendeva il territorio degli attuali Mongiana e Nardodipace. Il numero dei fabriziesi dovette essere assai cospicuo se, ancora oggi, gli abitanti di Piminoro sono chiamati “Prunarisi”. La presenza di uomini e donne originari dai due centri delle Serre è testimoniata anche dall’alimentazione principale, ovvero il pane. L’arte della panificazione si caratterizzava, infatti, per la produzione della “pizzata”, ovvero il pane fabriziese prodotto con la semola di granturco e la “crianza” il vecchio pane serrese fatto con un impasto di crusca, farina e talvolta segale. Molto probabilmente, nonostante la loro netta prevalenza, i serresi ed i fabriziesi non dovettero essere gli unici ad aver preso la strada che dalle Serre conduceva all’Aspromonte. Come riporta don Santo Rullo nel suo “Piminoro”, tra i giochi popolari che vi si praticavano un tempo c’era, infatti, “il forte”, ovvero il “lancio della forma di cacio in direzione di una meta prefissata”. Un gioco che, inevitabilmente, rimanda a Spadola. Così come la presenza di “Ceravolari o sampaolari” cui si rivolgevano i contadini di Piminoro, fa pensare che tra i nuovi abitanti allettati dal villaggio fondato da monsignor Tomassini possa esserci stato, anche, qualche simbariano.

  • Published in Cultura

Don Figliuzzi, il prete serrese che amava il vino e le donne

Serra ha dato tanti suoi figli alla Chiesa. In alcuni casi si è trattato di religiosi che hanno scalato le gerarchie ecclesiastiche fino a ricoprire ruoli importanti; in altri di uomini di fede che si sono limitati ad assolvere il loro ufficio senza infamia e senza lode; in altri ancora di sacerdoti che si sono distinti per la scarsa aderenza ai principi che avrebbero dovuto professare. Gli epigoni dell’ultima categoria non sono stati pochi, di qualcuno ci è stato tramandato anche il nome. Di uno, in particolare, si trova traccia in un volume scritto da don Santo Rullo e dedicato a Piminoro, piccola frazione del comune di Oppido Mamertina in provincia di Reggio Calabria. Il prete in questione, don Alfonso Figliuzzi nacque a Serra San Bruno il 5 febbraio 1854. Ordinato sacerdote il 13 marzo 1880, “predicò due volte in Mongiana nell’anno 18923, durante la Settimana Santa e nel mese di maggio”.  Dopo aver svolto la funzione di “coadiutore dell’arciprete di Nardodipace” e Santo Todaro, il 27 dicembre 1893 “chiese al Vescovo il trasferimento nella Diocesi di Oppido”. La richiesta fu accolta positivamente ed il 3 marzo 1894,  venne nominato parroco di Piminoro. Giunto nel piccolo borgo di montagna, don Figliuzzi rivelò ben presto la fragilità della sua fede, tanto da essere passato agli annali per la “debole vita spirituale”. Come se non bastasse, il parroco serrese, nel corso della sua “missione”, pastorale si distinse per la spiccata propensione alla lascivia. Come ricorda Rullo, nel suo scritto “non aveva la forza di reagire alla seduzione istintiva alla natura umana e con facilità si lasciava dominare dai comuni vizi del vino e della lussuria”. Il ritratto che ne è stato tramandato è impietoso. “Privo di motivazioni interiori e alieno da alte aspirazioni ideali, o religiose, solo e prigioniero di un ambiente chiuso e sprovvisto di tutto, assente ai fenomeni culturali e spirituali, lacunoso di zelo apostolico e di pietà eucaristica, appesantito da una natura fiacca e inoperosa, dove poteva trascorrere le lunghe serate invernali e le interminabili giornate estive se non nella compagnia dei consimili presso l’unico ritrovo del luogo, la bettola?”. Nella sferzante descrizione fattane da Rullo, non manca qualche nota di apprezzamento all’indirizzo di don Figliuzzi il cui “cuore buono, aperto al dialogo e all’amicizia” lo portava ad essere “comprensivo delle umane sofferenze”. In ogni caso, la vita dissoluta non gli impedì di organizzare il “Comitato Cattolico Parrocchiale”; di “richiamare l’attenzione dei Superiore sui danni causati dal terremoto alla Chiesa” o di acquistare “due canopei nuovi” e di far effettuare alcune opere di restauro all’interno della chiesa. Tuttavia, le ombre nella sua condotta sono superiori alle luci, a tal punto che, nel 1914, il vicario generale Francesco Samà attestò: “L’arciprete Figliuzzi ha dichiarato al sottoscritto che in ventun anno di arcipretura non ha mai celebrato le Messe per i Confratelli Sacerdoti defunti. Perciò egli alla sua morte non avrà diritto ad avere la Messa dagli altri”. L’attività parrocchiale del prete serrese si concluse il 29 giugno 1914, quando venne accolta la richiesta di rinuncia presentata il 5 febbraio dello stesso anno. Ottenuta una pensione annua di “lire 365”, don Alfonso Figliuzzi si trasferì a Serra, dove si spense, nel 1916, all’età di 62 anni.

  • Published in Cultura
Subscribe to this RSS feed