Gli hacker russi al tempo di Obama lo spione
- Written by Mirko Tassone
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La parte più difficile è uscire di scena. In teatro, come in politica, bisogna saper abbandonare il proscenio. Bisogna farlo in maniera discreta, senza che gli spettatori se ne accorgano. Chi lascia la ribalta non deve, mai, invadere lo spazio altrui. Una regola elementare che, in otto anni alla Casa Bianca, Barack Obama non ha ancora imparato.
Dopo due mandati costellati da disastri e fallimenti, il presidente Usa è rimasto, fino in fondo, coerente con il suo ruolo di guitto.
La sua scomposta ed imbarazzante uscita di scena è culminata, infatti, nell’espulsione di 35 diplomatici russi. A suo dire, presunti hacker che avrebbero violato la mail del Partito democratico. L’episodio, ancora una volta, ha dato la misura della siderale distanza che lo separa da Putin.
Nella circostanza, il presidente russo sembra abbia voluto dire: ” non rispondo ad uno che sta facendo gli scatolini”.
Detto ciò, la vicenda rappresenta la cartina di tornasole dell’ipocrisia che ammorba gli epigoni del politicamente corretto.
La stizza di Obama, per quelli che, allo stato, sono solo presunti attacchi hacker, fa ridere i polli.
L’Obama che oggi s’indigna è, infatti, lo stesso che, da presidente, ha firmato il documento segreto “Direttiva politica presidenziale 20”. Un documento con il quale ha autorizzato gli 007 ad usare strumenti cibernetici per identificare e attaccare obiettivi posti oltreoceano. Una decisione che ha permesso di trasformare la cyber intelligence statunitense, da difensiva, in ufficialmente offensiva.
A ciò si aggiungano il caso Snowden e il Datagate. Gli scandali scoppiati nel 2013 hanno permesso, infatti, di appurare la propensione di Obama ad origliare dietro qualunque porta.
Dai documenti, all’epoca, pubblicati dal Guardian, è emerso, infatti, che durante il mandato di Obama, gli Stati Uniti hanno controllato illegalmente le comunicazioni di tutto il mondo.
Obiettivo degli spioni Usa non sono stati soltanto gli avversari ed i nemici dichiarati. Nella rete allestita dalla Nsa (Agenzia per la sicurezza nazionale) sono finiti, anche, capi di Stato e di governo alleati. In particolare, l’agenzia avrebbe intercettato i telefoni personali di 35 leader politici stranieri, tra cui quello della cancelliera tedesca Angela Merkel.
Come, all’epoca, riportato dal Guardian e dal Washington Post, oggetto delle attenzioni dei servizi segreti americani furono, tra gli altri, ambasciate e consolati, le sedi della Nato, dell’Onu e dell’Ue, nonché l’allora segretario generale della Nazioni unite Ban Ki-moon.
Il fatto che proprio il presidente del Paese che ha allestito la più grande rete di spionaggio della storia pretenda ora d’interpretare la parte del campione della privacy, dà la misura di quanta ipocrisia permei l’azione degli anfitrioni del politicamente corretto.
Un’azione sostenuta da un sistema che teme solo le “post verità”, soprattutto quando svelano le menzogne.
Articolo pubblicato su: mirkotassone.it