Il mito del buon selvaggio dell'Occidente piccolo-borghese
- Written by Ulderico Nisticò
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Non è vero che tutti gli immigrazionisti siano in mala fede e cerchino di arraffare i 35 € pro capite pro die. Ce ne sono a iosa, di tali mascalzoni, e ogni tanto qualche bella retata li sbatte in meritata galera.
Ma conosco alcuni della cui moralità e onestà e quindi fede buonissima, giuro, sono più che certo. Essi sono mossi da naturale bontà, e ciò è lodevole, con o senza buon senso, spesso senza: ma moralmente sono dei santi. Fine di questo argomento.
Ci sono motivazioni filosofiche, e antiche. Molto antiche, se nelle Baccanti di Euripide leggiamo “In alcune cose, i barbari sono più saggi dei Greci”: ed è la prima attestazione di terzomondismo che io conosca.
Da cosa nasce, un simile atteggiamento? Da disgusto della civiltà: studiate il Vico, e capirete il fenomeno. L’eccesso di civiltà è accompagnato da affievolirsi delle passioni sia psichiche sia fisiche. Non ci sono guerre, si muore raramente, il sesso è banalizzato, la letteratura è noiosissima e scritta in pessimo italiano… Insomma, la gente si annoia.
Si annoiavano a morte nel XVIII secolo, l’illuminismo, quando J. J. Rousseau (1712-78) trovò la soluzione nella dottrina del “bon sauvage”, il buon selvaggio.
Qualcuno lo aveva detto anche prima, e il Vico liquidò così la sballata teoria: “Sformati racconti di viaggiatori per dare smaltimento ai loro libri”.
Rousseau, che non aveva mai visto un pellerossa, si giovò di qualche avventuriero che, stato nel Canada, aveva conosciuto dei gruppi degenerati che vivevano di elemosina ai margini dei fortini francesi, quando ancora c’erano. Dedusse che i “sauvages” erano buoni d’animo, liberi e privi di inibizioni religiose e morali. Ci credettero in tanti, e ci credono tuttora. Anzi, dai “sauvages” esteri, molti passarono ai selvaggi indigeni, compresi, per esempio, i Calabresi sotto gli occhi di frettolosi viaggiatori forestieri zeppi di pregiudizi positivi, che sono anche peggio del contrario.
Torniamo ai selvaggi propriamente detti. Occorsero due secoli, prima che un grande antropologo ed etnologo, Claude Lévy Strauss (1908-2009), andasse di persona a visitare certe popolazioni, e, nel celebre (???) testo “Tristi Tropici”, del 1955, affermò che i selvaggi non sono buoni, non sono liberi, non sono disinibiti, e, soprattutto, non sono selvaggi, ma solo tecnologicamente arretrati. Del resto, alcuni miei colleghi hanno impiegato trent’anni per comprarsi un computer!
Ma Lévy Strauss continua ad essere conosciuto solo dagli specialisti; mentre, sulla scorta di Rousseau, ci sono seriamente quelli che attribuiscono agli Africani e altri delle speciali virtù, e tali da renderne desiderabile l’arrivo alle nostre latitudini.
E invece gli Africani non sono buoni, liberi e disinibiti, e non sono selvaggi: sono esseri umani con qualche particolarità, e per il resto, come noi. Ovvero, per dirla con Shakespeare, “Tu mi credi un uomo onesto, Orazio: ma se sapessi cosa si annida dentro il mio animo, volgeresti lo sguardo da me come da un serpente velenoso”.
Sempre con il Vico, potrebbero essere dei salutari barbari tipo quelli che arrivarono alla caduta dell’Impero e rigenerarono un’esangue Mediterraneo. Ma non sto vedendo nessun Teodorico e nessuna Teodolinda, sui barconi; solo delle imitazioni di un poco esaltante Occidente piccolo-borghese.