Calabria: piroscafo Torino patrimonio culturale sommerso

La notte tra il 18 e il 19 agosto 1860 Giuseppe Garibaldi con circa 3200/3500 Camicie Rosse, a bordo dei due piroscafi Torino e Franklin, partì dalla Sicilia seguendo una rotta di attraversamento dello stretto più lunga e indiretta allo scopo di eludere il pattugliamento della flotta borbonica. Garibaldi era sul Franklin, mentre Bixio era imbarcato sul piroscafo Torino. Nonostante il Torino si fosse arenato sulla spiaggia di Rumbòlo a Melito Porto Salvo in provincia di Reggio Calabria, tutti gli uomini riuscirono a sbarcare. Il piroscafo Torino ora giace sul fondale a 7 m di profondità.

Il Segretariato Regionale del MiBACT per la Calabria, nella persona del Direttore dott. Salvatore Patamia, d’intesa con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Reggio Calabria e la provincia di Vibo Valentia, ha accolto l’invito ricevuto dal Commissario Straordinario del Comune di Melito Porto Salvo, Dott.ssa Anna Aurora Colosimo, di presentare, alla presenza del Prefetto di Reggio Calabria, S.E. Massimo Mariani, le attività relative al Piroscafo “Torino”. Alle 11 di domani 14 luglio 2020, infatti, all’interno dei Museo Garibaldino sito in località Rombolo del lungomare dei Mille di Melito Porto Salvo, il funzionario archeologo subacqueo Dott.ssa Alessandra Ghelli, presenterà l’attività di tutela del patrimonio culturale sommerso da parte del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo, con particolare riferimento alla tutela, conservazione e valorizzazione del Piroscafo “Torino”.

Le attività operative che saranno  illustrate, sono state espletate con il coordinamento sul territorio dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Reggio Calabria, dai Carabinieri del Nucleo Subacquei Messina consistenti nella prospezione strumentale dei fondali da parte dell’Aliquota Subacquei Messina sotto la direzione scientifica del funzionario archeologo subacqueo, Dott.ssa Alessandra Ghelli, con l’assistenza dei Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Cosenza.

Successivamente, dalle 15:30 la cittadinanza potrà osservare il relitto illustrato dalla soprintendenza ABAP Rc-VV e dal segretariato regionale MiBact con l’ausilio del Nucleo Subacquei di Messina in modalità snorkeling (osservazione del fondo del mare nuotando in superficie a pochi metri dalla battigia e usando maschera e boccaglio). Chiunque voglia partecipare potrà recarsi davanti al museo Garibaldino provvisto di propria attrezzatura personale.

  • Published in Cultura

Garibaldi, la Calabria le colpe dei calabresi

 In un certo teatro della nostra zona, un certo attore ha informato il pubblico che “Garibaldi tolse al Sud le ferrovie e le portò al Piemonte che non le aveva”; e giù applausi di tutti, tranne chi scrive, il quale è sì Commendatore dell’Ordine borbonico Costantiniano eccetera, però, nei ritagli di tempo, è storico, e come tale edotto che, nel 1860, il Piemonte contava 950 chilometri di linee ferrate – resesi assai utili anche nella guerra del 1859 contro l’Austria – e il Regno delle Due Sicilie solo 99 (novantanove).

 Rispondo a qualche domanda. Mancavano forse i progetti? Ma no, ce n’era un visibilio, e anche disegnati molto bene. Mancavano i soldi? Ma no, le casse dello Stato scoppiavano (dello Stato, non del re; e un ducato che fosse uno non circolava). E allora? Lo stesso della Regione Calabria quando non spende i fondi europei: ignoranza, incapacità, o, peggio, eccesso d’intelligenza e starsela a pensare. Già, il meridionale medio è come i cani doberman che ogni tanto il cervello cresce più del cranio, e diventano scemi!

 Lo Stato unitario attuò i progetti con i soldi borbonici; e nel 1875 la linea di Bari s’incontrò con quella di Reggio. Indovinate dove? A Soverato! Ma non è di treni che voglio parlarvi; è della mania dilagante, tra un 20% di furbetti e un 80 di sprovveduti e ingenui, di spiegare i mali del Sud con la colpa di qualcun altro. Non è una novità, e, prima di questa moda pseudoborbonica, di solito l’intellettuale meridionale vagamente colto e vagamente massonico se la prendeva con:

-          I Romani, che, a suo dire, avrebbero distrutto la Magna Grecia: affermazione falsissima, se è vero che già da due secoli i Greci avevano raso al suolo le città greche di Siri, Sibari, Caulonia, Ipponio, Reggio e spiccioli; che Roma intervenne la prima volta per aiutare Thuri; e che la rinata Reggio era un municipio romano in cui si parlava greco ma erano tutti cittadini con tre nomi latini; eccetera.

-          Saltando un po’, contro gli Spagnoli, cui si attribuivano tutte le nefandezze antiche e attuali, ignorando che non ci sono più dal 1708.

-          I più raffinati, se la pigliavano con i cattolici per non essere diventati protestanti.

-          Con i Borbone, la cui colpa sarebbe stata di non essersi messi a pecorone quando nel 1798 arrivarono i giacobini saccheggiatori; eccetera; e che anche loro non ci sono dal 1861.

 Questo accadeva prima. Oggi che a scuola si studia solo la Guerra dei cento anni, segno che i testi sono scopiazzati da libri francesi e inglesi e che certi professori senza libri annaspano nel buio pesto, niente Romani e Iberici e papi; e i Meridionali hanno trovato un nuovo lupo con cui prendersela: i più, Garibaldi, che bene o male l’hanno sentito nominare tutti; qualche raro meno ignorante, con Cavour.

 Il procedimento è psicanalitico, tipo per la moglie è colpa del marito, e per il marito, della moglie. Tutti vedono che il Sud è messo malissimo; in particolare, la Calabria è pressappoco l’ultima d’Europa. Per evitare di accusare i Meridionali, e in particolare i Calabresi, bisogna scaricare le colpe addosso a qualcuno: è Garibaldi, ma potrebbero essere i Marziani, è uguale. Colpe di che? Di aver sottratto al Sud la sua ricchezza.

 Per fare ciò, bisogna inventarsi la ricchezza. Ed ecco che l’onesta ferriera statale di Mongiana diventa “il polo siderurgico più grande l’Italia”, e se l’applauso è scrosciante, “d’Europa”; e la casuale presenza di un bidet a Caserta, “avevamo l’acqua nelle case”, e via con altri deliri. Avevamo, poi arrivò il lupo cattivo.

 Attribuire colpa all’Oliverio, allo Scopelliti di turno? Non sta bene, sono amici; e forse un favore…

 Corollario: ora qualche lettore mi accuserà di essermi venduto ai “Piemontesi”; e invece no, ragazzi, vi sto spiegando la verità gratis; e che la colpa è tutta e solo nostra. Sì, anche l’arrivo di Garibaldi fu colpa nostra, di un esercito e marina che se la stettero a pensare invece di spararli addosso come deve fare, per automatico dovere, un militare normale in presenza di qualsiasi sbarco armato: prima sparare, poi, ma non è indispensabile, domandarsi chi è il nemico.

 E giù applausi all’attore disinformato.

  • Published in Diorama

Garibaldi in Calabria e la storia dei calabresi finita in tribunale

La Calabria non perde mai occasione di mostrare al mondo quanto sia provinciale; e oggi non dico sfiora ma colpisce a pieno il ridicolo, quando la lite a dove sbarcò Garibaldi, che dilania a colpi di storia Melito Portosalvo e Montebello Ionico, deve finire in tribunale; e, con i tempi secolari della giustizia, sarà un magistrato a decretare… Mi cadono le braccia.  Urge però una lezioncina di storia, essendo io più che certo essere ignoto ai più, o molto confuso, l’evento in parola. Garibaldi sbarcò una prima volta, il 19 agosto 1860, e proseguì dritto verso Napoli, dove entrò comodo e in treno il 7 settembre. Stiamo parlando di quella che è nota come la Spedizione dei Mille.  Lo sbarco che finisce in mano agli avvocati non c’entra niente con questo, e ci porta nell’agosto sì, ma del 1862. Cos’è era successo nel frattempo? Sarò breve.  Sulla strada di Napoli, quella del 1860, Garibaldi aveva raccolto circa 60.000 uomini, che, mossi da sentimenti e interessi e idee assai diverse, in quel momento erano vagamente antiborboniche. Il Regno delle Due Sicilie, in cachessia politica e militare, andava in disfacimento; arrivato a Napoli, e agendo come  capo di Stato, non faceva mistero di voler proseguire verso Roma e cacciarne papa Pio IX. Sarebbe intervenuta, a sostegno del papa, la Francia di Napoleone III, come già nel 1849; ma si agitavano Austria e Prussia, e si rischiava una guerra europea. Napoleone spinse all’intervento il Regno di Sardegna, ormai esteso a Milano, Parma, Modena, Bologna, Firenze, cedendo alla Francia la Savoia e Nizza; lo scopo era di fermare Garibaldi, e ciò avvenne. Il 9 ottobre il deluso eroe lasciava alla chetichella Napoli, dove si era insediato, vero vincitore, Vittorio Emauele II. Il 13 febbraio 1861, con la resa di Gaeta, Francesco II andava in esilio a Roma. Il Regno era finito per le sue inspiegabili debolezze politiche e umane e per avere generali e ufficiali decrepiti per età e di tutto capaci tranne che di guerra.  Vero, ma non la pensava affatto così gran parte della popolazione, che insorse fin da subito, dando inizio a quello che verrà chiamato brigantaggio. Per alcuni anni molte aree interne dell’Appennino restarono in mano ai ribelli borbonici.  A complicare le cose, ecco un secondo sbarco di Garibaldi, quello del 1862, dovunque sia avvenuto. Inoltratisi con pochi uomini sull’Aspromonte, gli si fecero incontro i bersaglieri italiana di Pallavicini, e senza tanti complimenti gli spararono addosso, ferendolo alla famosa gamba della canzoncina; e arrestandolo. Poi dite che non è un fatto antropologico! Venne poi richiamato in servizio contro l’Austria nel 1866, quando, nel disastro italico, solo lui e l’ex borbonico Pianell salvarono la faccia! L’anno dopo riprovò a prendere Roma, ma subì una dura sconfitta dalle truppe pontificie.  Chiaro che stiamo parlando di due sbarchi, uno contro i borbonici nel 1860, l’altro contro gli italiani nel 1862? Evitiamo confusioni.  Torniamo al 1862, per chiederci cosa mai volesse Garibaldi con questo strano sbarco. La spiegazione ufficiale, da lui stesso avallata, era l’intenzione di prendere Roma; ma ha poca logica, voler partire da 700 km di distanza, e voler attraversare un territorio di cui una parte in mano alle bande; e il resto saldamente occupato dalle truppe di Vittorio Emanuele. A parziale spiegazione, ricordiamo che quello d’Aspromonte è solo uno dei tanti sbarchi che ebbero di mira la Calabria come base di partenza verso Napoli o comunque il nord. Nel febbraio 1799, sbarcò presso Palmi il cardinale Ruffo, che il 13 giugno liberò la capitale dai Francesi e dai loro amici giacobini: l’unico sbarco riuscito e vittorioso. Nel 1806 sbarcò un reparto britannico, che battè i Francesi a Maida - S. Eufemia; ma si ritirò senza effetti. Nel 1815 sbarcò Murat a Pizzo, subito catturato, e fucilato il 13 ottobre. Nel 1844 sbarcarono i fratelli Bandiera, messi a morte. Nel 1849 il siciliano Ribotti, sperando invano di trovare aiuti per la rivoluzione dell’isola. Il 14 settembre 1861 sbarcò il generale spagnolo Borjes, nominato da Francesco II comandante dell’insurrezione; venne fucilato dai bersaglieri, ma in Abruzzo. Anche gli Angloamericani sbarcarono, il 3 settembre 1943, in Calabria, senza dover combattere che in pochi casi, e l’8 venne dichiarato l’armistizio; subito dopo effettuarono una ben più massiccia operazione a Salerno, contrastati ormai solo da truppe germaniche.  Nei mesi precedenti, Garibaldi aveva più volte dichiarato le sue intenzioni; e resta dubbio se il governo (Cavour era morto da più di un anno, e gli era successo Rattazzi) abbia tenuto un atteggiamento ambiguo, magari sperando di fare a Roma quello che era stato fatto a Napoli. Ma l’imperatore francese non poteva permetterlo, dovendo rendere conto al partito cattolico da cui era sostenuto. Garibaldi agì dunque di sua iniziativa. Niente niente voleva avere qualcosa a che fare con i briganti, cui attribuiva, arbitrariamente, un pensiero di matrice democratica? Se fosse così – e lo diciamo a titolo di pura fantasia e badando solo agli aspetti bellici della faccenda, però… - allora sì che le bande avrebbero trovato un capo capace e di tenerle sotto disciplina, e di farne buon uso sui campi, e meglio nei boschi di battaglia.  Ipotesi, mera ipotesi; vero però che la situazione politica e ideologica dell’Italia di quegli anni confusi era tale da lasciare spazio a ogni iniziativa; e se mazziniani e repubblicani erano ancora minoranza, erano tuttavia anche molto attivi e pochissimo moderati. A loro volta, i briganti, a parte un antichissimo sentimento di fedeltà al Regno e perciò al re, tutto si può dire di loro tranne che avessero le idee chiare sul presente e sul futuro: un vuoto che qualcuno poteva tentare di colmare.  Alla fine, come leggete, c’è qualche problemino più curioso e interessante, e di maggiore serietà storiografica, che andare in tribunale per stabilire di chi fosse, nel 1862, un tratto di spiaggia deserta. Ma la Calabria è provinciale, e pur di darsi importanza… E ci sono tanti avvocati speranzosi d’incarico…

  • Published in Diorama

Roma: fanno sesso nel museo di Garbialdi, immortalati dalle telecamere

In visita al Museo della Repubblica romana e della memoria garibaldina, una coppia si è fatta travolgere dalla passione. La passione sfrenata, non per il Risorgimento o l'eroe dei due mondi, è sfociata in un vero e proprio amplesso consumato sotto il vigile occhio elettronico delle telecamere di sorveglianza. Incuranti del fatto che si trovassero in luogo pubblico, i due focosi amanti hanno consumato il loro rapporto senza preoccuparsi di essere visti. L'episodio è accaduto intorno alle 17, un'ora in cui la biglietteria è già già chiusa, ma il pubblico all'interno può continuare la visita fino alle 18, l'effettivo orario d'uscita.

Nicotera: Bruno Vinci, l'intellettuale che volle il ginnasio

Famiglia nobile di Limbadi, i Vinci entrano nella storia di Nicotera, Limbadi e Motta nel XVII secolo. Essi furono tra i più importanti nobili che vissero in quest’area della Calabria. Tra i personaggi più noti della famiglia si ricordai Bruno deputato del Regio Parlamento Italiano, influente maestro della gioventù calabrese; Adolfo grande ufficiale dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, alto funzionario del Ministero degli Esteri vivente nella prima metà del XX secolo.Bruno Vinci nacque a Limbadi il 27 luglio del 1812, medico, filosofo, filantropo, illustre nicoterese d’ adozione dopo aver sposato  Maria Naso. Una vita piena di cariche. Sindaco di Limbadi in pieno periodo Borbonico dal 1840-al '42, in seguito consigliere comunale a Nicotera, per poi concludere la sua ascesa politica con due legislazioni al Parlamento di Torino e Firenze. Intorno al 1848, quando anche in Calabria si accesero focolai insurrezionali contro i Borbone sedati con le armi da Ferdinando Nunziante ( ricordo i martiri di Gerace) anche a Nicotera iniziano ad agitarsi le acque. Bruno Vinci, con un gruppo nutrito di menti eccelse, si oppose ai Borbone istituendo una loggia massonica, un circolo letterario e politico con lo scopo di divulgare idee liberali. Frequentavano il Circolo le più importanti personalità del tempo: Cognetti, medico di chiara fama, Diego Corso, medico, archeologo, il chimico Mamone, Capria, professore dell'Università di Napoli, l'avv. Mileto, il cav. Coppola, il pittore Domenico Russo, i maestri Rascaglia e Pagano, il canonico La Tessa, Carlo e Giuseppe Cipriani ed il Sacerdote Francesco Spinoso. In questo Circolo oltre agli aspetti culturali si discuteva del modo di far giungere senza intoppi Garibaldi a Nicotera. Infatti,  il Generalissimo sbarcò senza alcun problema sulle coste di Nicotera  il 26 agosto 1860 , a seguito di una capillare propaganda che i dotti nicoteresi compirono sulla popolazione. Queste le parole della Delibera del Decurione (A.S.C.N. Delibera del Decurionato 6 febbraio1861) scritta a distanza di mesi il 6 febbraio 1861 in cui viene descritto l'arrivo di  Garibaldi  nel centro:” Ove sbarcato l'illustre generale il cui sbarco avvenuto in Marina il 26 agosto 1860 (….) venne da noi e dalla popolazione tutta facilitato, in mezzo a grida di entusiasmo e gioia “. Il 15 luglio 1865 cominciarono le battaglie tra nuovo regime e clero: a Nicotera si fece chiudere il seminario per far nascere il ginnasio. Il 17 luglio del '65 si riunì la Giunta per autorizzare “in forza di nota” dal Sottoprefetto foglio n. 7102. Di fronte ai personaggi del circolo letterario di Vinci e degli altri Nicoteresi il Sindaco Saverio Adilardi, dopo aver letto la nota: “Il Sottoprefetto Antinori scrive che la visita del Regio Ispettore degli studi di Monteleone e Nicastro, dopo aver ispezionato le Scuole elementari, che trovò in sufficiente stato di progresso ,” accompagna il Sottoprefetto  ai locali di questo Seminario di Nicotera, dove nascerà il Ginnasio. L'Ispettore enumera le difficoltà espresse dal Vicario del Vescovo De Simone, ed il diniego ostinato del Vescovo di far accedere ai locali l'Ispettore Regio. L'intero documento, molto interessante, ci informa sia della “bugia” del Vescovo nel sostenere che ivi erano rimaste solo le cattedre religiose, che la risposta del Sindaco, anch'egli liberale, il quale  invocò il Ministro della Pubblica Istruzione chiedendogli di chiudere il Seminario di Nicotera e di affidare la struttura al Municipio. Tuttavia, proprio durante la sua prima legislazione, nel 1865, Bruno Vinci istituì il Ginnasio che fece progredire culturalmente il Borgo, accogliendo studenti da tutta la Calabria. A distanza di mesi, dopo visite e battaglie, il 4 gennaio 1866, si riunì  una Seduta straordinaria del Consiglio comunale, per discutere l'incarico di aprire il Ginnasio nei locali del Seminario, “ il quale fu chiuso per disposizioni superiori”. I comuni di Limbadi e Ioppolo e Nicotera dovettero inserire nei propri bilanci una somma per sovvenzionare il Ginnasio. In quegli anni anche a Nicotera si agiva in nome di leggi non ancora promulgate. A distanza di pochi mesi, secondo l'ennesimo documento ( A.S.V.N. DOC LXXVI agenda Natale  Pagano) si riunì una Seduta straordinaria presieduta dal Sindaco Adilardi. Ad essa partecipò la Giunta ed il lodato Signor Regio Ispettore Provinciale, il quale, in conclusione dei lavori, dichiarò ufficialmente che il suo intento era quello di aprire in tempi brevissimi il Ginnasio. Inoltre, secondo il documento, l'Ispettore decise di controllare la somma stanziata dal Municipio che a conti fatti non risultava sufficiente. Il Municipio stanziò, quindi, la somma di lire 3. 242,90. Inoltre volle indagare se il quadro presentato dalla Chiesa fosse veritiero. Le lotte tra Curia Nicoterese e Stato continuarono nel mese di marzo del 1866. Vinci rieuscì ad ottenere la vittoria definitiva. Il  19 marzo si riunì, ancora una volta, la Giunta e venne nominato il personale (A.S.V.N. DOC  LXXVII agenda Pagano):” Vinci Bruno fu Isidoro età 53 anni di Nicotera Dottore in medicina e Deputato, con carica di Direttore del Ginnasio con stipendio annuo 1500 £. Brancia Raffaele fu Giuseppe di Nicotera 41 anni e insegnante prima classe con 500 £ annue. Brancia Francesco fu Diego di Nicotera 44 anni insegnante seconda classe con 500 £ annue. Foglia Giuseppe fu Giovanni da Cerenzio età 40 insegnante 3 classe con stipendio annuo 1200 £ con documenti attestanti l'idoneità inviati dal Regio Ispettore della prov. Cipriani Franc. Maria fu Carmine di Nicotera 31 anni incaricato di Aritmetica con 3.200 £ annue. Massara Filippo di Giuseppe Nicotera anni 37 incaricato di calligrafia con l'annuo stipendio di £ 200. Massara Raffaele fu Antonino da Nicotera anni 60 incaricato di lingua Francese con 200 £ annue. Berlingò Francesco fu Francesco Nicotera anni 48 bidello e custode con 300 £ annue”. Il Direttore Vinci rimase al timone del Ginnasio anche dopo la fine delle due legislature che lo videro Senatore. Stroncato da un attacco cardiaco Bruno Vinci tornò alla casa del padre il 17 settembre 1877 dopo aver coronato il suo sogno liberale e dopo aver lasciato la sua cospicua rendita in favore del mantenimento del Ginnasio comunale. Il suo corpo è tumulato nella Chiesa di San Francesco di Nicotera Il Municipio poté disporre dell’appannaggio di Bruno Vinci soltanto dopo la morte della vedova, spirata nel 1892.

 

Carlo Amirante, il calabrese che aprì la breccia di Porte Pia

«Durante gli ultimi dodici anni la stella polare di Vittorio Emanuele fu l'aspirazione all'indipendenza nazionale. Quale sarà questa stella riguardo a Roma? La nostra stella, o signori, ve lo dichiaro apertamente, è di fare che la Città eterna, nella quale venticinque secoli hanno accumulato ogni genere di gloria, diventi la splendida capitale del Regno italico». Con questa dichiarazione, pronunciata al cospetto del parlamento, l’11 ottobre 1860, Cavour aveva prefigurato la presa di Roma quale momento conclusivo e culminante dell’Unità d’Italia. Un evento destinato a realizzarsi dieci anni dopo, quando i bersaglieri del generale Raffaele Cadorna piegarono la simbolica resistenza delle truppe pontificie e consegnarono Roma all’Italia. Un episodio militare secondario, per un fatto storico di primaria importanza, cui prese parte, in un ruolo decisivo, un calabrese, nato a Soverato diciotto anni prima. Il primo ad aprire il fuoco dei cannoni, intorno alle 6,30 di martedì 20 settembre 1870, fu, infatti, un giovanissimo sottotenente d’artiglieria, Carlo Amirante. Le salve andarono avanti per quattro ore, prima che i bersaglieri riuscissero a conquistare la breccia che avrebbe decretato la fine del potere temporale della Chiesa. A propiziare l’evento, una lunga serie di antefatti. Nel 1862 Garibaldi era partito da Caprera alla volta di Palermo con l’intento di ripercorrere le tappe dei Mille, questa volta con destinazione Roma. La marcia dell’Eroe dei due mondi, però, era stata fermata sull’Aspromonte dai bersaglieri, inviati dal governo per evitare complicazioni diplomatiche con Napoleone III, che si era dichiarato protettore di Roma. Seguì, quindi, la Convenzione stipulata a Parigi, il 15 settembre 1864, con la quale la Francia si era impegnata a ritirare entro due anni le proprie truppe da Roma; in cambio l’Italia aveva dichiarato di rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio. Ad ulteriore garanzia, nell’accordo era stata inserita una clausola con la quale il governo italiano si era impegnato a trasferire la capitale da Torino a Firenze. Un atto simbolico di rinuncia a Roma capitale, destinato a suscitare nei torinesi proteste popolari talmente vibranti da costringere l’esercito ad aprire il fuoco sui manifestanti. Al termine degli scontri, rimasero sul selciato 54 morti e 187 feriti. Tre anni dopo, nel 1867 Garibaldi era partito da Terni con 10 mila volontari, ma conquistata la piazzaforte pontificia di Monterotondo, era stato costretto a capitolare a Mentana, sotto i colpi dei soldati pontifici, supportati dalle truppe francesi. A mutare radicalmente il quadro e ad offrire una significativa possibilità di successo, il 2 settembre 1870, intervenne la sconfitta di Napoleone III a Sedan e la conseguente fine del Secondo impero. Con la disfatta francese, la convenzione del 1864  poté essere ignorata senza il timore di un intervento francese a difesa di Pio IX. A metà agosto, con il giungere delle notizie dei primi rovesci dell’esercito transalpino sulla confine alsaziano-lorenese, la diplomazia sabauda si era attivata per costruire il casus belli che le avrebbe permesso di sferrare l’attacco decisivo alla città Eterna. Il 29 agosto, il ministro degli esteri italiano, il marchese Emilio Visconti Venosta, aveva inviato a Parigi un dispaccio nel quale, seppur in maniera sibillina, aveva comunicato di voler trovare una soluzione alla mancata “conciliazione tra il Santo Padre, i Romani e l’Italia”. Nelle stesse ore, una circolare del Ministro degli esteri era stata trasmessa agli ambasciatori italiani affinché segnalassero alle potenze europee la costituzione di un esercito mercenario con il quale lo Stato Pontificio si proponeva di muovere un’improbabile crociata. Alla circolare era stato allegato un memorandum in dieci punti nel quale erano state delineate le condizioni e le proposte per salvaguardare la libertà di azione del Papa e della Chiesa. Acquisito il tacito consenso delle potenze europee, Vittorio Emanuele II, l’8 settembre, aveva fatto recapitare al Pontefice una lettera nella quale comunicava «l'indeclinabile necessità per la sicurezza dell'Italia e della Santa Sede, che le mie truppe, già poste a guardia del confine, inoltratesi per occupare le posizioni indispensabili per la sicurezza di Vostra Santità e pel mantenimento dell'ordine». L’11 settembre, il Pontefice aveva replicato: « Maestà, Il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V.M. piacque dirigermi; ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà». Nelle ore in cui Pio IX vergava la sua risposta, al generale Raffaele Cadorna era stato consegnato l’ordine di predisporre la marcia dei suoi 60 mila uomini alla volta di Roma. Domenica 18, l’esercito italiano si accampò alle porte della capitale. A fronteggiarlo 15 mila soldati, prevalentemente Zuavi, comandati dal generale Kanzler. Nonostante lo scontro, ormai, imminente, Pio IX decise di non abbandonare Roma e di opporre una simbolica resistenza a prova della violenza subita. La giornta del 20, si preannunciava piuttosto calda, non solo dal punto di vista climatico. Il direttore dell’Osservatorio meteorologico del Collegio Romano, padre Angelo Secchi, nel diario dell’istituto, sarcasticamente scriveva: «20 settembre. Bello. Cannonate al mattino, furfanterie fino a sera. Nord e sud – ovest leggero. Cresce poco il barometro. Magneti poco regolari». Alle 6,30 le prime salve di cannone iniziarono a cadere sulle mura della capitale dello Stato pontificio, alle 10 si aprì la prima breccia. La capitolazione venne comunicata, pochi minuti dopo, quando su Castel Sant’Angelo e sul torrino del Quirinale venne issata la bandiera bianca. Lo scontro, durato poche ore, lasciò sul terreno, 13 ufficiali, 43 soldati e 141 feriti da parte italiana; 20 morti e 49 feriti tra i papalini. Il 2 ottobre il plebiscito consegnò i seguenti risultati: a Roma 40765 sì e 46 no; in tutto lo Stato 133681 sì e 1507 no. L’apertura della breccia di Porta Pia spesso è stata celebrata dalle diverse confraternite anti-clericali come il trionfo sull’oscurantismo cattolico. Tuttavia, poche volte è stato ricordato che Carlo Amirante, autore materiale delle breccia, dopo essere rimasto ferito negli scontri, indirizzò a Pio IX una lettera nella quale spiegava: «La mattina del 20 settembre scorso dovetti come militare eseguire senza discutere gli ordini che mi erano stati dati. Fui ferito e chissà che la Beata Vergine non mi abbia salvato concedendomi il privilegio di inginocchiarmi ai piedi di Vostra Santità». Il Pontefice lo convocò subito e lo ricevette in udienza privata. Al termine dell’incontro il giovanissimo capitano, era stato promosso sul campo per la ferita subita, decise di svestire la divisa dell’esercito italiano per abbracciare quella con le insegne di Cristo. Nel 1877, dopo essere stato ordinato sacerdote, venne inviato a Napoli dove morì nel 1934. Nel corso della sua vita, oltre a spendersi in opere caritative, si interessò di matematica, musica e lettere, annoverando tra le proprie allieve la scrittrice Matilde Serao. Il 19 giugno 1980 venne aperta la sua causa di beatificazione.

  • Published in Cultura

Un morto e un ferito. Quando la processione dell’Assunta finì a colpi di fucile

Sarà per il ritorno dei numerosi emigrati, sarà per la solennità dell’evento, ma la festa di “Menzagustu” a Serra ha un fascino particolare. Un fascino che nel corso degli anni si è arricchito di alcuni elementi, perdendone altri. Ciò che, ormai, sembra appartenere al passato è la feroce rivalità che un tempo ha visto contrapposte le due confraternite dell’Assunta, quella di Terravecchia e quella di Spinetto. Una rivalità, nata all’indomani del 1783, in seguito al terremoto ed al trasferimento di una parte della comunità serrese. Al di là dell’Ancinale, oltre al nuovo quartiere, venne costruita la chiesa nella quale trovò ospitalità la statua della Madonna che, fino ad allora, era sempre stata custodita a Terravecchia. Da quell’evento ebbe inizio la lunga contesa tra le due confraternite. L’asprezza del confronto, fu tale che quando i “terravicchiari” decisero di ricostruire la loro chiesa, constatata la volontà degli “spinittari” di non restituire la statua, spostarono sprezzantemente la facciata sul lato in cui si trova oggi, rivolgendo la parte posteriore verso i confratelli rimasti sull’altra sponda del fiume. Una rivalità segnata da due feste nello stesso giorno, da due distinte processioni e da qualche episodi di inusitata violenza. Giusto 155 anni fa, l’ostilità tra le due confraternite sfociò, addirittura, in uno scontro armato, con un morto ed alcuni feriti. Il 15 agosto 1860 c’era tensione nell’area. Garibaldi aveva quasi finito di conquistare la Sicilia e si accingeva ad attraversare lo Stretto. La notizia si era diffusa anche a Serra e l’atmosfera della festa era turbata dalle numerose voci che facevano presagire il peggio. La propaganda filo ed anti borbonica era in piena attività. Da una parte, si diffondeva l’idea che i seguaci dell’Eroe dei due mondi fossero ribaldi pronti a saccheggiare ed a fare terra bruciata attorno a loro. Dall’altra, si parlava dell’imminente fine della monarchia borbonica e dell’inizio di una nuova era. In ogni caso, c’era incertezza. Le persone comuni non sapevano quali potessero essere le conseguenze di ciò che stava accadendo. Ancor meno informate erano le donne del popolo, sempre pronte a divulgare, ovviamente, previo arricchimento di particolari inesistenti, ogni singolo pettegolezzo. Le voci incontrollate si erano diffuse, soprattutto, dopo il ritorno in famiglia dei primi soldati borbonici sfuggiti all’avanzata garibaldina. Come riporta la “Platea”, ovvero la cronistoria vergata dai cappellani della chiesa Matrice, i soldati “ raccontavano i tradimenti, i furti, gli abusi e le violenze praticate dagli amabilissimi nuovi fratelli che piovevano dal Piemonte per regalarci la promessa civiltà, ed anche le donne discorrevano di politica”. L’occasione per alimentare la “discussione” venne offerta dalla processione dell’Assunta di Spinetto. Le comari, tra un Rosario e l’altro, come è sempre successo, avevano trovato il tempo per fare considerazioni e commenti di varia natura. Ad un certo punto, la conversazione scivolò sulle notizie che giungevano dalla Sicilia. “Talune donne petulanti” iniziarono, così, a discorrere “dell’arrivo de soldati nelle famiglie e delle cose da essi raccontate, e delle belle cose da essi raccontate: della venuta delle truppe da Torino e delle loro rapine, e fra di loro si dimandavano: chi sa se anche qui verranno e ci toglieranno le nostre cose?”. In questo conteso nacque l’equivoco che avrebbe dato fuoco alle polveri. Una delle fedeli replicò, “ci penserà la Madonna”. L’arte del pettegolezzo richiede due caratteristiche particolari, orecchio lungo e lingua lesta. Una delle donne che seguiva la processione, con un orecchio ascoltava le litanie e con l’altro quello che si diceva intorno. Tratta però in inganno dal brusio e dalle voci che si sovrapponevano, intese tutt’altra cosa e riferì a chi le stava accanto, “vengono a riprendersi la Madonna”. Questa non perse tempo e lanciò l’allarme, gridando “vengono da Terra Vecchia a levarsi la Madonna”. Nonostante fosse passato quasi un secolo, l’attaccamento per la statua della Vergine, rimasta “prigioniera” degli “spinittari”, non era mai scemato da parte dei confratelli di Terravecchia. Venne, quindi, ritenuto plausibile, che i “terravicchiari” si fossero organizzati per andarsi a riprendere quella che consideravano la loro statua. La notizia circolò rapidamente e scoppiò il “parapiglia, una generale rivolta, un inferno”. Lasciato il Rosario, “tutti corsero a prendere armi, chi scure, chi ronche, chi bastoni, e si avviarono fremendo per la città”. Ciò che stava accadendo a “Spinetto” attraversò ben presto l’Ancinale. I “terravicchiari”, non persero tempo, sciolsero la processione e portarono la statua della Madonna nel palazzo Peronaci. “Subito Guardie cittadine e popolo, armati per resistere furono nel Largo San Giovanni, mentre gli spinettesi arrivano sul ponte”. Le due fazioni si fronteggiarono come soldati di eserciti in guerra. La tensione era altissima. Bastò poco per far scoppiare il finimondo. Partirono le prime schioppettate e com’era inevitabile ci scappò il morto. “A cadere fu “un certo Palello”, colpito a morte “sul ponte” mentre guidava gli “spinittari” che contarono, anche, diversi feriti. “Vi furono grida, schiamazzi, minacce, bestemmie, agitazione in tutto il paese e vigilanza fino alla notte. Le funzioni in chiesa furono sospese per più giorni, sull’accaduto parole e discorsi e poi altri avvenimenti richiamarono l’attenzione del popolo”. Nella notte tra il 18 ed il 19 agosto, infatti, Garibaldi era sbarcato in Calabria. Di lì a poco, i serresi avrebbero spostato la loro attenzione sulle Camice rosse della “colonna Garcea”, giunte nella cittadina bruniana, a fine agosto, per andare a mettere le mani sulle ferriere e sulla fabbrica d’armi di Mongiana.

  • Published in Cultura
Subscribe to this RSS feed