Fine del regno di Praticò sullo sport calabrese: bilancio fallimentare
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Cosa sia rimasto dei quattordici anni del regno con cui Mimmo Praticò ha marchiato col suo nome lo sport calabrese è difficile da dire. Di più, è difficile da individuare. Caduto sulla buccia di banana del commissariamento della sezione regionale del CONI, piazzata lungo il suo cammino dai pochi che non si sono chinati riverenti alla sua gestione, annuncia oggi, all'indomani della decisione del Collegio di Garanzia del Comitato Olimpico che: "Sicuramente proseguirà il suo impegno nello sport". Una minaccia, più che una promessa, sebbene le doti umane ed il garbo dell'uomo siano fuori discussione. Meno indiscutibile risulta essere, invece, la conduzione concreta da parte di Praticò del carrozzone a cinque cerchi nella nostra regione. Un approccio che si è fondato sulla relazioni personali e non su capacità manageriali, caratteristica indispensabile per chi vuole cimentarsi nel terzo millennio con la moderna complessità del mondo sportivo. E' questo che è mancato nella fase segnata dal suo impero, è questo che sarebbe servito per essere autenticamente apprezzati anche dalle parti di Piazza Lauro De Bosis, a Roma, sede nazionale del CONI. L'assenza di una visione strategica, la mancanza di una programmazione capace di convogliare le intelligenze locali in un progetto di ampio respiro, hanno impedito in più di una circostanza che dalla Capitale arrivassero le risorse necessarie per attuare idee e progetti a cui l'immobilismo ha impedito di dare seguito. A titolo meramente esemplificativo del personalismo verticistico che ne ha tracciato la via, sarebbe sufficiente ricordare l'oceanica e roboante presentazione della Scuola dello Sport, allestita il 13 febbraio 2008 all'interno di un Auditorium Versace di Reggio Calabria traboccante di gente affluita da tutta la Calabria. Un evento, impreziosito dalla presenza di Gianni Petrucci, all'epoca presidente del CONI. Un marziano che fosse atterrato in quel momento sul pianeta terra non avrebbe avuto dubbi e, ubriacato dall'ottimismo e dall'entusiasmo che regnavano in quella sala, avrebbe immaginato si stesse parlando di un cosa fatta, di un gioiello di cui fregiarsi già nell'immediatezza. In realtà, come nella migliore tradizione della politica italiana, non fu data continuità tambureggiante a quella spettacolare iniziativa che tanto sapeva di kermesse elettoralistica. Fu necessario, infatti, arrivare all'aprile 2010 per assistere al taglio del nastro da parte delle autorità accorse nella frazione collinare di Gallina, dove è stata data ubicazione alla Scuola dello Sport. A questo punto, il famoso extraterrestre, pur avvezzo ormai alle abitudini umane, avrebbe avuto la certezza, al di là di ogni ragionevole perplessità, che finalmente, all'esito di un iter infinito, le porte della struttura sarebbero state finalmente spalancate per formare al meglio le figure sportive professionali "made in Calabria". Anche in questo caso, deluso, avrebbe dovuto recedere, suo malgrado, dalle convinzioni maturate, perché, per completare l'opera sarebbe stato indispensabile raccattare un altro paio di milioni di euro. Una volta superato questo step, sarebbe stato nell'ordine naturale delle cose pensare di farla decollare individuando le persone che, per competenze e studi, avrebbero potuto trovare un approdo naturale in quel centro di eccellenza, almeno sulla carta. Nel corso della lunga vigilia, tanti giovani meritevoli avevano dato credito a parole e promesse, scritte sulla sabbia. Non si dovette attendere molto, infatti, per rimanere investiti dall'ennesimo tentativo di amministrazione privatistica di un ente di diritto pubblico, qual è, fino a prova contraria, la casa dello sport italiano. Senza che nessuna forma di evidenza pubblica e nel segreto più fitto fu dato il via alla procedura di selezione dei docenti. Un'operazione che non andò in porto perché nella Capitale stopparono le candidature di figure del tutto sprovviste dei requisiti richiesti e beneficiarie, esclusivamente, della condizione preferenziale di natura "familiare" con alcuni big della politica locale. Nel gennaio del 2013, poi, per una sorta di nemesi, la candidatura di Tino Scopelliti, fratello dell'allora presidente della Regione, alla guida del CONI calabrese, fece di Praticò il campione della sinistra autoctona. Di fronte all'ennesimo trionfo il tripudio che si levò da quella parte politica fu sproporzionato. Non pareva vero che uno Scopelliti potesse uscire sconfitto da una competizione elettorale, sia pure sui generis come quella che avrebbe posto le basi per il quarto mandato dell'imprenditore reggino sulla tolda di comando ormai da dodici anni. A dare un colpo di maglio alla sua inarrestabile carriera nello sport, iniziata da dirigente della Reggina e che in un'occasione svoltò verso un incarico assessorile nella Giunta comunale di Reggio Calabria (naturalmente con delega allo Sport), ci ha pensato un drappello di componenti della Giunta regionale del CONI. Un gruppo ribellatosi nel marzo scorso con la formalizzazione delle dimissioni, "manifestando e comunicando, agli organi preposti, che non c'erano più le condizioni per un attività proficua così come si conviene a un organismo collegiale democraticamente eletto". Giunti al culmine della soglia massima di tolleranza, nella circostanza in cui hanno reso pubblica la decisione, si sono espressi con toni e motivazioni inappellabili: "Il disagio che si è vissuto all'interno del Coni Calabria era tale che le nostre dimissioni sono state precedute dalle dimissioni del coordinatore tecnico regionale a settembre 2014, dalle dimissioni del revisore dei conti, dalle dimissioni del vice presidente della Giunta. Tutte situazioni determinate dalla gestione monocratica e poco rispettosa dell'organo collegiale e delle funzioni dei vari componenti". Un passo, il loro, che si è rivelato decisivo per modificare il placido e sonnacchioso incedere dello sport in Calabria il cui sigillo è stato rappresentato dalla bocciatura, sancita dal Collegio di Garanzia, del ricorso presentato dallo stesso Praticò.
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