Il protagonismo, spinto fino al parossismo, con cui il Governo sta facendo campagna elettorale per il “Sì” al referendum, la dice lunga sulla piega che, già da un pezzo, ha preso il Paese.
Per sua natura la riforma costituzionale dovrebbe nascere dal più ampio accordo possibile tra le forze politiche presenti in Parlamento.
Già di per sé è, quindi, un’anomalia che sia l’esecutivo a vararla ma, ancor più, anomalo è che il Governo eserciti tutto il potere di cui dispone per cercare di convincere i cittadini a votarla. Se poi il Governo che la propone e la propaganda non è mai stato votato da nessuno, l’intera vicenda assume contorni ancor più singolari.
Paradossale è, inoltre, la narrativa renziana, fatta di lezioncine imparate a memoria, di banali trovate pubblicitarie e di piccole furberie da imbonitore di mercato rionale.
Il tutto per cercare di far passare una riforma raffazzonata, demagogica, ingannevole che, qualora venisse approvata, terrebbe l’Italia legata, per altri cinquant’anni, ai suoi peggiori vizi.
La vittoria del “Sì” consegnerebbe, infatti, la sovranità popolare nelle mani dei partiti, o meglio di un partito. Dietro allo schermo del taglio ai costi della politica e della diminuzione del numero dei parlamentari, si nasconde in realtà un progetto finalizzato a contrarre gli spazi riservati alla sovranità popolare. Una cosa sarebbe stata, infatti, superare il bicameralismo perfetto eliminando il Senato, un’altra far eleggere, come accadrebbe in caso di vittoria del “Sì”, i senatori ai consiglieri regionali, ovvero ai rappresentanti politici più colpiti da scandali, ruberie e inchieste giudiziarie.
Nel caso in cui si dovessero affermare le ragioni di Renzi & Co, i senatori sarebbero, quindi, nominati dai Consigli regionali, con il risultato di dare più potere a partiti politici, ormai, delegittimati dal loro stesso agire. Un potere ulteriormente accentuato dal premio di maggioranza, previsto dall’Italicum, che consegna il 55% del Parlamento al partito che rappresenta il 40% degli elettori, con il risultato che, in presenza di alte percentuali d’astensione, il potere legislativo e di conseguenza quello esecutivo diverrebbero appannaggio, quasi esclusivo, di un’esigua minoranza.
Come se non bastasse, per limitare ulteriormente la partecipazione dei cittadini, la riforma prevede un sostanzioso aumento (da 500 mila 800 mila) del numero di firme necessarie per poter proporre un referendum abrogativo.
Certo, si potrebbe obiettare che viene inserito in Costituzione, l'obbligo di far discutere le leggi di iniziativa popolare dalla Camera, ma si tratta del classico specchietto per le allodole. In ragione del ferreo controllo esercitato dall'assemblea, qualunque iniziativa del genere potrà essere respinta senza alcuna fatica.
Nella direzione che rafforza il partito di maggioranza relativa va, anche, il riordino delle competenze regionali, che sarebbe giusto e opportuno, se non fosse, finalizzato a limitare ulteriormente ogni ostacolo potenziale all'onnipotenza dell'esecutivo.
Chiamare tutto questo "deriva autoritaria" può essere eccessivo, tuttavia non v’è dubbio che la riforma, così com’è stata architettata, dà un incondizionato "mani libere " al governo, il che potrebbero non essere un male, se non fosse che l’attuale esecutivo, oltre a non essere stato eletto da nessuno, è composto, per la gran parte, da figuri che nella migliore delle ipotesi avrebbero sfigurato anche come consiglieri circoscrizionali.
Non si può, inoltre, cedere al ricatto della “ingovernabilità”, poiché, per citare Sartori, "una dose di instabilità è preferibile alla stabilità di un cattivo, o pessimo, governo".
Del resto, che le ragioni del “Sì” siano a dir poco fragili, lo testimonia il clima da paura che si sta cercando di diffondere nel Paese. A sentire i sostenitori della riforma, Renzi in primis, sembrerebbe che, a conclusione dello spoglio, in caso di vittoria del “No” dovrebbe abbattersi sull’Italia il furore dei cavalieri dell’Apocalisse.
Lo stereotipo del terrore, con cui si cerca di sbarrare la strada alla democrazia e ad orientare le scelte nella direzione voluta dai padroni del vapore, già di per sé dovrebbe mettere in guardia gli elettori. Tanto più che, nel caso dovesse passare il “No”, non ci sarà nessun salto nel buio, come dimostrano le recenti vicende in cui l’evocata catastrofe (vedi Brexit o Vittoria di Trump) non si è mai concretizzata. A ciò si aggiunga che, se l’Italia riesce a sopportare Renzi ed i suoi ancillari alleati (da Verdini ad Alfano), vuol dire che ha maturato anticorpi tali da poter resistere a qualunque genere di contraccolpo.
Infine, a convincere gli indecisi a votare “No” dovrebbero essere gli agit prop della grande finanza, schierati a ranghi compatti a favore del “Sì”. Se l’Unione europea, il Financial Times, Goldman Sachs e le altre banche d'affari, ovvero coloro i quali hanno trascinato l’Italia nella crisi che ha impoverito le famiglie e depredato i giovani del loro futuro, stanno con Renzi, ci sono ragioni a sufficienza per prendere posizione dall’altra parte della barricata e votare “No”.