Il certosino che parlava di arte e scienza / II PARTE
- Written by Girolamo Onda
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Non è dato sapere se i misteri giacenti entro la cinta turrita dove i monaci pregano in solitudine corrispondano con alcuni segreti che la storia non è ancora riuscita a svelare. Ma ci sono sensazioni che non sembrano poter svanire facilmente. Come quelle relative al destino di Ettore Majorana. A 68 anni dalla scomparsa del fisico, e precisamente il 28 di marzo del 2006, si svolse la “Giornata di studio sulla figura e l'opera di Ettore Majorana” presso l'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti di Padova; tra gli intervenuti vi era il professor Silvano Onda, di origini serresi, che fu invitato ad esporre la sua testimonianza. Di seguito proponiamo il suo racconto dai dettagli particolarmente interessanti:
“Negli ultimi anni diversi libri sono stati pubblicati sui possibili e più autentici retroscena della scomparsa di Ettore Majorana, famoso fisico nucleare siciliano, avvenuta in un momento storico turbato dai fermenti dell’imminente conflitto mondiale. Alla questione non sono mai stato interessato particolarmente, e ne sapevo più o meno quanto la maggioranza delle persone a me vicine. Avevo letto il libro di Sciascia: ‘La scomparsa di Majorana’, perché nell’ultima parte, lo scrittore, suppone che lo scienziato si sia ritirato nella Certosa di Serra San Bruno per fuggire dal mondo e dedicarsi a vita contemplativa. Nel corso di questi ultimi anni, misi insieme una serie di ricordi relativi ai miei periodi trascorsi a Serra, soprattutto nei mesi estivi, quando rientravo da Roma dove frequentavo l’Accademia di Belle Arti. Ho esitato a lungo prima di decidermi a far conoscere questi miei lontani ricordi perché, l’argomento di cui riferirò, è molto delicato e riguarda il sospetto di aver incontrato e parlato con Ettore Majorana, conosciuto nei panni di frate Antonio. La decisione di rendere pubblici questi ricordi è dovuta all’amore che nutro per la Verità, o se si preferisce per la ricerca di essa. Lo stesso Cristo diceva: ‘conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi’. Era l’anno 1970 quando, nel mese di luglio, chiesi il permesso al Priore della Certosa Villibrordo Pjnenburg di poter dipingere i ruderi dell’antica chiesa distrutta dal terremoto del 1783. Ottenuto il permesso, di buon’ora, un mattino…mi recai in Certosa dove ero atteso dal guardiano: un certosino di origine tedesca che mi aprì il pesante e alto portone. Appena dentro posizionai il mio cavalletto davanti ai ruderi e poggiai tutte le mie cose su di un basso muretto vicino all’antico chiostro. Sistemai la tela preparata il giorno prima e con un carboncino iniziai a tracciare il disegno. Poco distante mi accorsi della presenza di un monaco che, tra due pilastri di un chiostro, seminascosto, mi faceva cenno con la mano come se volesse salutare, gli risposi e con fare guardingo mi venne incontro. Quando fu vicino mi strinse la mano e si presentò come frate Antonio. Si appoggiò al muretto e, divertito, osservava il procedere dei tratti del mio disegno. Notò che la superficie della tela non era liscia ma presentava delle striature irregolari a rilievi. Precisai che preparare la tela in quel modo era una mia scelta e che in seguito avrei steso il colore con l’uso di spatole a diversa grandezza. Curioso mi chiese la composizione di quella imprimitura, risposi che si trattava di un mestico a base di cementite solida di colore bianco mista ad un collante tipo vinavil. Rimase in silenzio per alcuni minuti poi mi chiese se conoscevo il De diversis artibus del monaco Teofilo. Con imbarazzo risposi di no e lui aggiunse che si trattava di un testo scritto nel XII secolo sulle tecniche artistiche. Gli dissi, per giustificare le mie lacune, che ero iscritto al primo anno dell’Accademia di Belle Arti di Roma e ancora che ero troppo giovane per certe letture specifiche. In effetti quel monaco mi metteva un po’ di soggezione. Aveva un’età di circa sessant’anni, lo sguardo penetrante, magro dai capelli cortissimi, orecchie un po’ grandi, labbra carnose e una lunga barba nera a tratti brizzolata. Fui colpito da un particolare; aveva la mano sinistra coperta da un guanto. Di colpo scappò via senza neanche salutare, per un breve tratto lo seguii con lo sguardo poi sparì dietro alcuni vigneti. Dall’altro lato della strada vidi sopraggiungere il Priore e quindi capii che non voleva farsi sorprendere in mia compagnia. Questi si era accorto della sua presenza e, avvicinandosi, mi chiese di cosa stavamo parlando risposi: del modo di come si preparano le tele. Il Religioso, uomo dalla natura molto timida, abbozzò un sorriso e…allontanandosi disse : ‘forse si vuole mettere a dipingere’. Il giorno dopo alla stessa ora ritornai in Certosa per continuare il lavoro e con mia grande sorpresa trovai già sul posto frate Antonio sorridente e contento di rivedermi. Notai che era più calmo e meno guardingo del giorno precedente. Misi la tela sul cavalletto e lui, ansioso di osservarla, si piazzò subito di fronte e senza indugi disse : ‘bene! bene! adesso capisco la funzione di quella superficie scabra, in realtà produce, graffiando con la spatola sulla tela, un effetto gradevole e interessante. Complimenti!’. Lo ringraziai e provai come un senso di rivincita sull’ignorato monaco Teofilo del giorno prima. Mi chiese quali discipline si studiavano all’Accademia di Roma, città che lui conosceva molto bene, risposi che oltre alla Pittura si studiava: Anatomia artistica, Incisione e Storia dell’arte ma si potevano seguire anche lezioni di Psicologia tenute a Magistero dal professor Ferrarotti. Mentre io seguitavo a dipingere lui fece una serie di riflessioni sull’arte che trovai molto interessanti, al punto che per non dimenticarle, giunto a casa, li riportai su un quaderno che ancora conservo. Diceva, ad esempio, che non c’era esistenza e non c’era durata nelle opere d’arte moderna, ma soltanto ‘atti deliberati’ che restituivano forme casuali senza legami con il mondo circostante. Si riferiva, forse, all’arte astratta oppure ai surrealisti. Sosteneva che l’uomo d’oggi ha una coscienza sfaccettata, che le cose non hanno più forma stabile nella coscienza, che l’arte contemporanea, per le sue forme straziate corrispondeva alla realtà straziata e quindi allo strazio della coscienza. Timidamente risposi che l’artista partecipa al suo tempo e ad esso corrisponde con la propria arte. Il frate ribadì che l’artista, oggi, rappresenta forme atomizzate, crea delle forme disfatte, come se egli si sentisse a suo agio nella distruzione, aldilà di rendere alle cose la loro essenza invece che deformarle. Aggiunse che in un’opera deve emergere sempre qualche cosa che rinnova e risana e che, per opera sua, le cose debbono acquistare la loro integrità. Il fenomeno del disfacimento, precisò, produce consunzione che oltrepassa di gran lunga l’oggetto disfatto. Poi, con espressione molto triste, concluse: ‘in fondo al disfacimento sta la bomba atomica che non tollera accanto a sé cosa che non sia spezzata’. Cosciente di non essere all’altezza di quel dialogo, per non essere obbligato a rispondere, provai a fargli il ritratto dietro la copertina di un libro che avevo con me nella borsa. Ma ad un tratto mi disse che doveva rientrare nella sua cella perché da li a poco, il Priore sarebbe ritornato da Catanzaro dove si era recato in macchina con il suo autista. Mi confidò che il Superiore più di una volta gli aveva raccomandato di non parlare con gli estranei. Promisi che sarei tornato a finire il suo ritratto e ad ascoltare ancora le sue interessanti riflessioni sull’arte, ma lui mi salutò con aria triste dicendomi: ‘non so se tutto ciò sarà possibile’. In seguito, quando ebbi occasione di tornare in Certosa, di frate Antonio nessuno serbava ricordo…mi si rispondeva : ‘ma chi è sto’ frate Antonio?’. Appunto, me lo sono sempre chiesto anch’io. Ma chi era quel frate Antonio che parlava di arte e scienza tra le mura della Certosa?”.
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