Mastro Bruno Pelaggi e quel suo modo d'intendere la primavera

"A maghju non mutàri saju" recita un noto proverbio serrese, che invita a non cedere alle lusinghe delle prime belle giornate di primavera. Una stagione che, pur tra repentini sbalzi di temperatura e giornate piovose, rimane senz’altro quella che più di tutte desta meraviglia e stupore. Artisti e uomini di lettere di ogni epoca si sono lasciati ispirare da questa stagione, che ci consegna quindi opere di rara bellezza e di sentimenti profondi. Anche un animo severo e pungente quale era Bruno Pelaggi non resta indifferente di fronte allo spettacolo che la natura offre nella stagione del suo risveglio. Poco meno di trenta sono i versi che il poeta scalpellino dedica alla primavera, protagonista di liriche tanto brevi quanto intense ed efficaci. Nella prima lirica Si l’arvuli si vestanu di fhjuri il poeta istituisce addirittura un confronto tra la primavera e la giovinezza: questa fase della vita di ciascun uomo apporta continuamente linfa nuova a ogni generazione, proprio come la primavera rigenera la natura dopo ogni freddo e sterile inverno. Anche questi pochi versi, però, non sono esenti da quella vena polemica di denuncia che contraddistingue il Pelaggi nel panorama della poesia dialettale. Dal rigoglio di frutti e fiori che segna la primavera, l’attenzione del poeta di sposta su quelle donne che, prive di marito, non hanno visto la mancata realizzazione come donne, causata non dalle leggi di natura (equamente distribuite tra gli esseri viventi) ma da quelle umane che, caratterizzate da ingiustizia, povertà e soprusi dei potenti, non mancano di discriminare tutti gli esseri: la vita cu mia fu amara e boia! (v.9). Più celebri sono i versi della lirica Quandu la primavera si risbigghja, nella quale un mastro Bruno pacato e sereno si ferma a riflettere sulla vita dell’uomo. In soli sette versi è condensata la descrizione di un locus  amoenus, segnato da un’esplosione di colori e dolcissimi suoni della natura. In questo locus amoenus, simile a un quadretto bucolico virgiliano, vengono collocate le figure della campagnola e di lu piecuraru: la prima è colta in uno stato di estasi onirica, mentre ‘nzonna appunto chi potrebbe essere il suo futuro marito, mentre il secondo gode della sua libertà in compagnia delle sue pecorelle. L’ultimo verso (v.8) del componimento è però un ritorno alla realtà: il dolore del poeta è racchiuso in questo interrogativo malinconico, che è rivolto alla Vergine Maria. Se l’uomo si lasciasse guidare dalla semplicità tanto disarmante quanto meravigliosa della natura, la vita sarìa mala? Sei versi formano l’ultimo componimento di Pelaggi sulla primavera: Turnata è primavera ‘n’atra vota. Il poeta si ferma a considerare li vecchiariedi alli pusteda (v.3), venuti fuori dalla loro umide e fredde abitazioni per godere del tepore dei raggi di sole. L’inverno serrese è sempre tristi e crudu, ma anche il mese di marzo in quell’anno non deve essere stato di meno se ‘nci vrusciau li matassara, cioè ha costretto la gente a bruciare persino gli arcolai pur di scaldarsi. In questa lirica non vi è spazio per considerazioni tipicamente pelaggiane: il poeta si limita a cogliere ciò che vede all’inizio di una nuova primavera, stagione capace di “cacciare” anche dall’animo di mastro Bruno (come fa con i vecchietti infreddoliti e pigri dopo un lungo inverno) versi di una profondità senza dubbio inesprimibile nello spazio di poche righe.   

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