La Calabria e le ferriere itineranti /Parte I
- Written by Mirko Tassone
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La Calabria vanta un vecchio legame con l’estrazione e la lavorazione dei metalli. Una storia rimasta inesplorata, fino al pioneristico lavoro, nei primi anni Settanta, con il quale Gennaro Matacena e Brunello De Stefano Manno ricostruirono le vicende del più importante complesso industriale del Regno delle Due Sicilie. “ Le reali ferriere ed officine di Mongiana” ha permesso di fare luce su un complesso sistema produttivo che rappresenta “l’ultima testimonianza di un’attività fusiva che in Calabria risale al tempo degli insediamenti commerciali fenici”. Un’attività, nata in ragione di un vantaggio competitivo che affondava le radici nella disponibilità di tutte le materie prime necessarie. La presenza del ferro nelle miniere dei monti Stella e Cosolino che circondano il triangolo Stilo – Bivongi - Pazzano; i ricchi boschi di faggio di Monte Pecoraro e le inesauribili risorse idriche che solcano l’intero territorio. Mongiana, nasce, infatti, in tempi relativamente recenti ed è “una gemmazione” di precedenti piccole ferriere. Una gemmazione dettata da ragioni prettamente economiche. L’enorme consumo di carbone vegetale, “rendeva le ferriere industrie nomadi”, costrette ad inseguire i nuovi boschi dai quali ricavare il carbone necessario ad alimentare gli altiforni. Come ricordano gli autori delle “Reali ferriere ed officine di Mongiana”, “nel 1771, distrutto il bosco di Stilo, i forni giungono in località Cima, detta poi Mongiana dal nome di un ruscello che scorreva sulla Piana Stagliata-Micone. […] Giungono in un territorio apparentemente ricco di acque, sicuramente folto di selve e non troppo distante dai giacimenti. Intorno al primo nucleo di forni si svilupperà il paese e con l’introduzione delle prime leggi di tutela forestale, la ferriere perderà il carattere itinerante e assumerà quello d’industria stabile.
Le ferriere itineranti
Nella “Storia critico-cronologica-diplomatica del Patriarca San Brunone e del suo ordine cartesiano”, Benedetto Tromby riporta l’atto di donazione con il quale, nel 1094, Bruno di Colonia riceve, da Ruggero il Normanno, le miniere ed i forni presenti nel circondario di Stilo ed Arena. La donazione si accresce nel 1173, quando Guglielmo re di Sicilia, aggiunge “[…] et liberartibus minerae aeris ed ferri […]”, concedendo alla Certosa alcuni contadini ed un mulino “in pertiunentiis Stili”. La lavorazione del minerale si sviluppa con svevi, angioni ed aragonesi che fiutano il vantaggio economico ed iniziano ad istituire “fondachi” e dazi. Le miniere di Pazzano crescono d’importanza durante il periodo angioino, tanto che un documento nel 1333, nel citare il lavoro nelle gallerie di Monte Stella, fa riferimento ad una fonderia di proprietà della Certosa attiva proprio nel territorio di Pazzano. Sia le miniere che le ferriere, non vengono gestite direttamente. A gestirle ci pena l’ “arrendario” , un concessionario che le sfrutta, pagando una rendita in manufatti e in denaro, al re ed al convento. Il periodo d’oro della metallurgia itinerante vive il suo primo declino intorno al 1450, quando gli Aragonesi per favorire i più importanti finanziatori del loro debito, ovvero i ricchi mercanti fiorentini che risiedono a Napoli, favoriscono l’importazione di ferro toscano imponendo dazi proibitivi all’estrazione, lavorazione e commercio del ferro grezzo. “Nel 1520 la ferriera di Stilo risulta inattiva”, mentre le semi abbandonate miniere di Pazzano forniscono il poco materiale necessario ad alimentare le ferriere di Campoli, Trentatarì, Castel Vetere, Spadola e Furno. Nel 1523, quale riconoscimento dei servigi ricevuti l’imperatore Carlo V dona a Cesare Fieramosca le miniere e successivamente i forni fusori ed i boschi. Il fratello del celebre Ettore, più votato alle armi che agli affari, non s’interessa granché delle sue nuove proprietà. Tuttavia, l’importanza dell’attivata estrattiva e della lavorazione del ferro è testimoniata da un importante documento redatto nel XVI secolo, nel quale incaricato dalla Serenissima di tracciare un “Descrizione di tutta l’Italia e isole pertinenti” il frate domenicano Leando Alberti, riferendosi alla vallata dello Stilaro scrive: “dalla marina, lontano quattro miglia, sopra un alto colle si dimostra Stilo, nobile Castello, dietro al quale a man sinistra son le miniere di ferro ove se ne cava assai”. Dopo una annosa vertenza tra gli eredi Fieramosca e Ravascheri che gestiscono per due anni la ferriera di Stilo, la “Regia Camera” al fine di non interrompere l’attività, incarica un ufficiale d’artiglieria, tale capitano Castiello, di dirigerle “in nome e per conto della corte”. Non deve risultare strano la scelta di affidare la gestione delle ferriere ad un uomo d’arme. Quelli sono gli anni in cui l’arte di eliminare il prossimo si serve sempre più di un’arma potente e temibile, il cannone. Nonostante ciò, anche in ragione delle fiorenti miniere del Nuovo Mondo, durante il periodo dei Vicereami spagnoli, l’industria estrattiva “subisce una lenta contrazione”. Sono gli anni in cui lo Stato cede la proprietà delle ferriere, tenendo per sé solamente quella di Stilo. Nuovo impulso alla “industria” siderurgica viene dato dopo il 1734, in seguito alla rinascita del Regno di Napoli guidato da Carlo di Borbone e dal suo dinamico primo ministro Bernardo Tanucci.
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