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Caso Lanzetta: come ridurre in farsa la lotta alla ‘ndrangheta

Se una querelle politica si autoalimenta di continui botta e risposta senza che i nodi arrivino definitivamente al pettine, il rischio che essa si trasformi in una comica farsa condotta da figuranti è sempre dietro l’angolo. È questa la sensazione che si prova abbeverandosi al quotidiano stillicidio di dichiarazioni e repliche sprovviste di soluzione di continuità che vede fronteggiarsi, da un lato, Maria Carmela Lanzetta (ex ministro, ex sindaco di Monasterace e per poche ore appena assessore regionale della Calabria) e dall’altro il Partito Democratico (della cui Direzione nazionale è componente) nelle sue più diverse articolazioni. Dal presidente della Regione, Mario Oliverio, al segretario regionale Ernesto Magorno, ai cinque segretari provinciali. L’oggetto del contendere, come noto ai lettori, è costituito dal rifiuto opposto  dalla signora Lanzetta alla nomina ad assessore regionale con deleghe alla Cultura ed alle Pari Opportunità. Era il 25 gennaio quando Oliverio, arrampicandosi sugli specchi, assicurava che la decisione di far rientrare in Calabria l’allora ministro era stata di sua esclusiva competenza, così smentendo le tesi che circolavano in quelle ore secondo cui il nome della farmacista gli fosse stato imposto da Matteo Renzi. Numerosi retroscena, infatti, riportavano la volontà del presidente del Consiglio di sbarazzarsi della farmacista di Monasterace, il cui operato nell’Esecutivo dalle parti di Palazzo Chigi pare non sia stato particolarmente apprezzato. Contemporaneamente, la diretta interessata era intenta a rilasciare dichiarazioni dalle quali traspariva la delusione per il trattamento ricevuto a Roma, ma, era questa l’indicazione proveniente dalle sue parole, anche la consapevolezza  che le era stata offerta una via d’uscita più che onorevole traslocando a Catanzaro. Di lì a tre giorni è successo il finimondo: poche righe affidate all'Ansa in cui Lanzetta spiegava che, dopo essersi consultata con Graziano Delrio (di recente nominato ministro delle Infrastrutture, ma all’epoca dei fatti sottosegretario alla presidenza del Consiglio), aveva deciso di non accettare l’incarico offertole a causa della presenza in giunta di Nino De Gaetano, esponente del Pd reggino ed oggetto di informative di Polizia in relazione ad una presunta storia di appoggi elettorali da parte della cosca Tegano, per il tramite del defunto suocero Giuseppe Suraci. L’ipotesi degli inquirenti della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, che tuttavia non hanno ritenuto opportuno indagare formalmente De Gaetano, si sarebbe concretizzata nel 2010 durante la campagna per il rinnovo dell’assemblea regionale di palazzo Campanella. Successivamente eletto nelle fila di Rifondazione comunista di cui era segretario regionale, transitò poi in corso d'opera tra i banchi del Pd. Le dichiarazioni a cascata che ancora in questi giorni stanno inondando le pagine dei giornali sono iniziate allora e non si sono più arrestate. A ben vedere è una di quelle tipiche situazioni in cui nessuno sembra potersi arrogare il diritto di piantarsi stabilmente dalla parte della ragione. La motivazione, secondo il parere di chi scrive, è molto semplice ed è rintracciabile nella palese inadeguatezza esibita dalla Lanzetta nel corso della sua attività politica. Una inconsistenza di cui, però, il Pd, si è fatto a lungo scudo, ergendola a paladina antimafia, salvo rinfacciarle, come dichiarato sabato scorso da Oliverio che:  “A me non è mai capitato di dovermi trovare nella condizione in cui è invece incorsa, probabilmente suo malgrado, la signora Lanzetta da sindaco di Monasterace; non ho mai dovuto giustificare affidamenti illegali di lavori a causa della presenza nelle mie giunte di parenti stretti di boss mafiosi, riconosciuti tali da sentenze di condanna emesse nelle aule di tribunali”. Parole che avrebbero avuto ben altra credibilità se solo non fossero state pronunciate da colui che, nell'immediatezza della nomina, rivendicava con orgoglio la paternità della scelta, affermando: “Particolare valore e significato assume la nomina di Maria Carmela Lanzetta”, a cui andava il suo plateale ringraziamento “per aver deciso di mettere a disposizione della giunta regionale la propria esperienza, competenza e responsabilità. La decisione di impegnarsi nella funzione di assessore regionale calabrese è la manifestazione di quanta volontà e passione possa animare il suo impegno nella nuova veste istituzionale”. Toni, come si vede, ben diversi, da quelli a cui il buon governatore, si è richiamato nella nota vergata quarantotto ore fa. Registri verbali che sono stati il tema dominante anche del comunicato approntato dal segretario regionale Magorno e, a stretto giro di posta, dai cinque segretari provinciali del partito. Una guerra che, col passare dei giorni, delle settimane e dei mesi non accenna a placarsi ed anzi, per una nemesi paradossale, si presta ad un costante innalzamento dello scontro. La furia della polemica, infatti non risparmia ormai pesantissime allusioni alla ‘ndrangheta: l’ex ministro in un’intervista rilasciata la settimana scorsa ha affermato che la sua estromissione dalla giunta regionale (dalla quale, tuttavia, è bene ricordare, si è autoesclusa senza che nessuno l’abbia messa alla porta come invece lascia intendere) sarebbe stata, a suo dire, un favore ai clan. Dal fronte opposto, la replica si è nutrita di allusioni a vicende connesse all’esperienza amministrativa espletata dalla Lanzetta quando era sindaco di Monasterace. In mezzo a questo caos di parole senza costrutto, è bene ricordare anche la controversa audizione in commissione parlamentare Antimafia di cui si è resa protagonista alla fine di febbraio la professionista calabrese. Con superficialità inusitata si era avventurata in una ricostruzione dei fatti relativi alla convocazione che è stata subito puntualmente e formalmente smentita dalla presidente dell’organismo, Rosi Bindi. Al centro della discussione vi era la questione su chi avesse proposto di compiere quel passaggio istituzionale: la Lanzetta aveva rivelato di essere stata convocata dalla Bindi che, al contrario, ha sostenuto (corroborando la sua versione con specifici dettagli documentali) che era stata la sua interlocutrice a chiedere di essere ascoltata. In particolare, l’ufficio di Presidenza aveva ritenuto utile audire la farmacista, oltre che sulla storia riguardante De Gaetano, sul merito di un’intervista concessa  al Corriere della Sera proprio nell’atto di chiudere la sua esperienza ministeriale. Nell’occasione aveva sostenuto che gli attentati subiti quando era sindaco di Monasterace non erano stati opera dei clan. Ad essere generosi, dunque, pare che sia l’avventatezza a far muovere ogni passo all’ex ministro ma, con altrettanta evidenza, è chiaro che se il Pd non avesse creato artificiosamente il “personaggio”, facendola addirittura assurgere ingiustificatamente al rango di esponente di governo (liberandosene appena possibile), la Calabria ne avrebbe tratto sicuro vantaggio.

 

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