Il lavoro non produce più occupazione, in futuro sarà peggio
- Written by Mirko Tassone
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Dalle rilevazioni Istat, pubblicate pochi giorni fa, è emerso che oltre il 40 % dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni non ha un lavoro. Il dato, in aumento, è il più alto da giugno 2015. Complessivamente, il tasso di disoccupazione continua ad attestarsi intorno al 12 %.
Ovviamente, da più parti, sono piovute le consuete frasi di circostanza. La politica, parolaia ed inconcludente, ha detto la sua a seconda della collocazione in Parlamento. Stessa cosa dicasi per il sindacato che, nel caso della Cgil, ha chiesto un piano straordinario per l’occupazione giovanile.
Nessuno ha pensato, però, di aprire una discussione seria. Nonostante si tratti di una vera e propria emergenza, la questione è stata rapidamente archiviata. Eppure, non dovrebbe essere indifferente la circostanza che quasi la metà dei giovani non riesca a costruirsi un futuro.
Per tracciare una possibile via d’uscita servirebbe un’analisi di contesto. Bisognerebbe capire il motivo per cui l’indice di disoccupazione non accenna a diminuire. La crisi economica rappresenta, infatti, solo uno dei problemi.
Mentre il mondo cambiava, nel corso degli ultimi 20-25 anni, l’Italia è rimasta a guardare. I poli estremi dello sforzo messo in campo per affrontare mutamenti epocali, sono rappresentati da due idiozie. Da un parte, quella delle famigerate tre “I” di berlusconiana memoria; dall’altra quella supponente e deficiente, distillata nelle espressioni “bamboccioni” e “choosy”, usate dagli ex ministri Padoa-Schioppa e Fornero per definire i giovani senza lavoro.
Si tratta di due posizioni che esprimono la comune mancanza di un approccio rispetto alle sfide poste dalla modernità. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
In questi anni, i due fattori che hanno determinato il depauperamento delle opportunità lavorative sono rappresentati dalla globalizzazione e dall’imponente automazione dei processi produttivi.
Il primo fattore è abbastanza noto. Approfittando dei bassi costi della manodopera e dei trasporti marittimi, le aziende hanno portato le produzioni in Estremo Oriente.
Il secondo fattore, quello di cui si parla meno, ha avuto ed avrà l’impatto più significativo. La quarta rivoluzione industriale è stata determinata dalla fusione dell’elettronica con l’informatica. La combinazione di questi due elementi ha permesso di automatizzare massicciamente la produzione.
Con la completa digitalizzazione dei processi si entrerà definitivamente nell’ era dell’industria 4.0. Le innovazioni permetteranno, sempre più, di realizzare prodotti di alta precisione a basso costo. Ovviamente, la gran parte delle fasi di lavorazione sarà eseguita dalle “macchine”.
Si tratta di un processo destinato a durare e a stravolgere i rapporti economici. Il mondo del lavoro che abbiamo conosciuto sparirà per sempre. Nel corso dei prossimi anni, quindi, la disponibilità di posti di lavoro è destinata a contrarsi ulteriormente.
In una ricerca, ” The Futures of the Job“, presentata al World Economic Forum è strato disegnato uno scenario tutt’altro che rassicurante. Da qui al 2020, infatti, in 15 dei maggiori Paesi al mondo, Italia compresa, la diffusione delle nuove tecnologia porterà alla creazione di due milioni di posti di lavoro. Contemporaneamente, però, se ne perderanno sette milioni.
Tra le figure lavorative destinate a sparire non ci sono solo quelle manuali. Giusto per fare qualche esempio, esistono già robot in grado di eseguire interventi chirurgici, metropolitane senza macchinista e algoritmi capaci di scrivere un articolo di giornale.
E’ facile intuire, quindi, quali possano essere i futuri sviluppi della “robotica”. Sono destinate a venir meno o ad essere profondamente ridimensionate tutta una serie di professioni. Nel prossimo futuro, i lavori più richiesti saranno quelli legati all’area finanziaria, al mangement, all’informatica e all’ingegneria. Accanto ai profili “alti”, sopravviveranno i mestieri più umili, dal giardiniere all’imbianchino, per i quali il ricorso alla macchina potrebbe rivelarsi antieconomico.
In uno scenario del genere, il mondo deve ripensare se stesso. In vista delle prossime sfide è necessario riscoprire l’umanesimo del lavoro. Al centro dei processi economici ci deve essere l’uomo. L’economia non può continuare ad essere concepita come una divinità azteca da alimentare compiendo continui sacrifici umani.
La politica deve, innanzititto, togliere ai tecnici ed agli economisti le chiavi del potere. In seconda battuta deve riscoprire la fonte del sapere umanistico, tanto più che il mondo che verrà non può essere determinato da grafici ed algoritmi.
A dare colore al futuro non possono che essere i pensatori visionari, gli unici cui la storia ha consegnato le chiavi del futuro.
Articolo pubblicato su: mirkotassone.it