La crisi, le banche e gli squali della finanza

Tanto si è detto ed altrettanto si è scritto sulla crisi economica iniziata nel 2008. Le tante analisi prodotte non, sempre, sono arrivate a toccare la radice del problema.

La tempesta, non ancora passata, che si è abbattuta sul pianeta è piuttosto singolare. A determinarla, non è stato, infatti, un brusco calo della produzione né una marxiana crisi di sistema, provocata da sovrapproduzione.

Partita dagli Stati Uniti, la crisi del 2008 è il risultato dell’attività speculativa innescata dalle politiche iperliberiste inaugurate a partire dagli anni Novanta.

La causa remota di ciò che è successo in questi anni, va ricercata in una legge voluta da Bill Clinton.

Nel 1999, l’allora presidente Usa promulgò l’abolizione del Glass-Steagal act. Un provvedimento destinato ad avere effetti devastanti sull’economia di mezzo mondo.

Varata dal Congresso nel 1933, per volontà di Franklin Delano Roosevelt, la norma era nata con lo scopo di arginare i fallimenti delle banche americane in seguito alla grande depressione del 1929. Il principio ispiratore della legge, era rappresentato dalla netta separazione tra banche commerciali e d’investimento.

Da una parte furono poste le banche destinate ad erogare credito alle imprese ed alle famiglie, dall’altra quelle che svolgevano esclusivamente attività finanziarie a carattere speculativo. Per oltre sessant’anni, quindi, gli istituti di credito si sono mossi in campi distinti.

Recepita nel 1936, in Italia la legge venne abrogata nel 1993.

La pericolosa commistione fra banche commerciali e banche d’affari ha prodotto i disastri che hanno scosso le basi dell’economia occidentale, ha gettato sul lastrico le famiglie ed impoverito milioni di persone. Come se non bastasse,  i cittadini hanno dovuto mettere mano al portafoglio per pagare le puntate, sbagliate, fatte dagli speculatori al tavolo da gioco della grande finanza.

Fosse stato in vigore, il Glass-Steagal act avrebbe impedito che le conseguenze della bolla speculativa dei mutui subprime fossero scaricati sui cittadini.  La separazione tra i due sistemi, non avrebbe permesso alle banche d’investimento di far pagare ai correntisti i loro disastri.

L’assenza di banche esclusivamente commerciali ha, inoltre, condizionato la produzione. In questi anni, infatti, la resa, vera o presunta, dei prodotti finanziari ha indotto le banche a distrarre risorse alla c.d. economia reale a vantaggio delle attività speculative.

Gli unici beneficiare del nuovo corso sono stati gli “squali” della finanza.

Quella che Pound chiamava “l’ usura”, è diventata la forza dominante del mondo in cui viviamo. Una forza concentrata nelle mani di quelli, che citando Hobson, Lenin definiva “rentiers”; ovvero “persone che vivono del ‘taglio di cedole’, [che] non partecipano ad alcuna impresa e hanno per professione l’ozio”.

Un ceto, ieri come oggi, “parassitario”, completamente distaccato dal mondo della produzione.

I “rentiers”, alla Soros, hanno accumulato un immenso potere economico. Un potere tale da condizionare il destino delle nazioni. Sono loro, non i populismi, il vero pericolo per la democrazia.

Un pericolo che si può limitare mettendo ordine, nel caotico mondo della finanza. Per farlo, è necessario ripristinare le regole; a partire dalla separazione tra banche commerciali e banche d’investimento. Solo un provvedimento del genere può gettare le basi per disciplinare le forze dell’economia, adeguandole alle esigenze delle persone.

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Il lavoro non produce più occupazione, in futuro sarà peggio

Dalle rilevazioni Istat, pubblicate pochi giorni fa, è emerso che oltre il 40 % dei giovani di età compresa tra i 15 ed i 24 anni non ha un lavoro. Il dato, in aumento, è il più alto da giugno 2015. Complessivamente, il tasso di disoccupazione continua ad attestarsi intorno al 12 %.

Ovviamente, da più parti, sono piovute le consuete frasi di circostanza. La politica, parolaia ed inconcludente, ha detto la sua a seconda della collocazione in Parlamento. Stessa cosa dicasi per il sindacato che, nel caso della Cgil, ha chiesto un piano straordinario per l’occupazione giovanile.

Nessuno ha pensato, però, di aprire una discussione seria. Nonostante si tratti di una vera e propria emergenza, la questione è stata rapidamente archiviata. Eppure, non dovrebbe essere indifferente la circostanza che quasi la metà dei giovani non riesca a costruirsi un futuro.

Per tracciare una possibile via d’uscita servirebbe un’analisi di contesto. Bisognerebbe capire il motivo per cui l’indice di disoccupazione non accenna a diminuire. La crisi economica rappresenta, infatti, solo uno dei problemi.

Mentre il mondo cambiava, nel corso degli ultimi 20-25 anni, l’Italia è rimasta a guardare. I poli estremi dello sforzo messo in campo per affrontare mutamenti epocali, sono rappresentati da due idiozie. Da un parte, quella delle famigerate tre “I”  di berlusconiana memoria; dall’altra quella supponente e deficiente, distillata nelle espressioni “bamboccioni” e “choosy”, usate dagli ex ministri Padoa-Schioppa e Fornero per definire i giovani senza lavoro.

Si tratta di due posizioni che esprimono la comune mancanza di un approccio rispetto alle sfide poste dalla modernità. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questi anni, i due fattori che hanno determinato il depauperamento delle opportunità lavorative sono rappresentati dalla globalizzazione e dall’imponente automazione dei processi produttivi.

Il primo fattore è abbastanza noto. Approfittando dei bassi costi della manodopera e dei trasporti marittimi, le aziende hanno portato le produzioni in Estremo Oriente.

Il secondo fattore, quello di cui si parla meno, ha avuto ed avrà l’impatto più significativo. La quarta rivoluzione industriale è stata determinata dalla fusione dell’elettronica con l’informatica. La combinazione di questi due elementi ha permesso di automatizzare massicciamente la produzione.

Con la completa digitalizzazione dei processi si entrerà definitivamente nell’ era dell’industria 4.0. Le innovazioni permetteranno, sempre più, di realizzare prodotti di alta precisione a basso costo. Ovviamente, la gran parte delle fasi di lavorazione sarà eseguita dalle “macchine”.

Si tratta di un processo destinato a durare e a stravolgere i rapporti economici. Il mondo del lavoro che abbiamo conosciuto sparirà per sempre. Nel corso dei prossimi anni, quindi, la disponibilità di posti di lavoro è destinata a contrarsi ulteriormente.

In una ricerca, ” The Futures of the Job“, presentata al World Economic Forum è strato disegnato uno scenario tutt’altro che rassicurante. Da qui al 2020, infatti, in 15 dei maggiori Paesi al mondo, Italia compresa,  la diffusione delle nuove tecnologia porterà alla creazione di due milioni di posti di lavoro. Contemporaneamente, però, se ne perderanno sette milioni.

Tra le figure lavorative destinate a sparire non ci sono solo quelle manuali. Giusto per fare qualche esempio, esistono già robot in grado di eseguire interventi chirurgici, metropolitane senza macchinista e algoritmi capaci di scrivere un articolo di giornale.

E’ facile intuire, quindi, quali possano essere i futuri sviluppi della “robotica”. Sono destinate a venir meno o ad essere profondamente ridimensionate tutta una serie di professioni.  Nel prossimo futuro, i lavori più richiesti saranno quelli legati all’area finanziaria, al mangement, all’informatica e all’ingegneria. Accanto ai profili “alti”, sopravviveranno i mestieri più umili, dal giardiniere all’imbianchino, per i quali il ricorso alla macchina potrebbe rivelarsi antieconomico.

In uno scenario del genere, il mondo deve ripensare se stesso. In vista delle prossime sfide è necessario riscoprire l’umanesimo del lavoro. Al centro dei processi economici ci deve essere l’uomo. L’economia non può continuare ad essere concepita come una divinità azteca da alimentare compiendo continui sacrifici umani.

La politica deve, innanzititto, togliere ai tecnici ed agli economisti le chiavi del potere. In seconda battuta deve riscoprire la fonte del sapere umanistico, tanto più che il mondo che verrà non può essere determinato da grafici ed algoritmi.

A dare colore al futuro non possono che  essere i pensatori visionari, gli unici cui la storia ha consegnato le chiavi del futuro.

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La Calabria e la civiltà del porco

Chiacchierando con amici, qualche tempo fa, nell’affrontare il tema delle minacce dell’Isis all’Italia, ebbi a dire che la Calabria non avrebbe avuto nulla da temere dai tagliagole del Califfato.

Più che una previsione, una certezza, fondata sulla considerazione che la nostra regione, è irriducibilmente refrattaria ad alcuni dei più significativi postulati islamici.

Giusto per fare qualche esempio, in Calabria, non rinunceremmo mai al maiale, anzi al porco.

Se qualche manipolo di musulmani in armi dovesse sbarcare sulle calabre coste, verrebbe ricacciato in mare immantinente. L’idea di dover rinunciar al maiale, farebbe muovere in armi i calabresi tutti, vegliardi ed infanti compresi.

Rinunciare all’amato suino, vorrebbe dire, infatti, tradire il più fedele amico dell’uomo, calabrese s’intende!

Come si potrebbero voltare le spalle al cospetto di quella fedeltà incondizionata, portata, ogni anno fino all’estremo sacrificio?

Ahi, quanto sarebbe triste entrare in casa e non sentire l’afrore della soppressata o della pancetta appesa a stagionare.

Quanto sarebbe sconfortante alzare gli occhi e vedere il tavolato spoglio, senza neppure una misera “resta” di salsicce.

E poi, ci sono le considerazioni di carattere storico da non sottovalutare.

La storia calabrese viaggia, infatti, sulle gambe del suino. In una terra quasi del tutto priva di pianure, sarebbe stato impensabile poter sviluppare l’allevamento di mucche o pecore. Meglio, molto meglio, il maiale e la capra. Il primo, perché mangia tutto, la seconda perché mangia ovunque.

Il porco, poi, non essendo relegato alla vita solitaria di campagna, per secoli ha avuto, anche, un suo ruolo sociale, una sua dignità ed una dimensione urbana. E’ stato, infatti, un vero e proprio cittadino, con le sue abitudini ed i suoi luoghi di ritrovo.

A fornirne una colorita conferma, uno scritto di Vincenzo Padula, pubblicato il 4 maggio 1864, sul giornale “Il bruzio”. L’articolo, dal titolo, “L’ostracismo de’ porci”, prendeva lo spunto da una polemica sollevata da chi voleva relegare, il povero quadrupede, in campagna. Un oltraggio, una vera e propria offesa, perché il maiale non è mai stato un animale qualunque.

Scrive Padula: “ il Calabrese nasce tra i porci e le porcelle. Questi che insieme ai ghiri sono i soli animali privilegiati di avere attorno la corpo uno strato di grasso, sono in sommo pregio tra noi; e fu un frate calabrese colui che disse: Se il porco avesse l’ali sarebbe simile all’angelo Gabriele”.

Chi era interessato ad allontanare l’amato porco lo s’intuisce facilmente, poiché nei paesi della Calabria lasciate da parte i tre o quattro edifici di nobile apparenza; visitate uno appo l’altro quei bugigattoli, dove stivate, pigiate, affumicate albergano le famiglie del popolo, e sempre e da per tutto il medesimo spettacolo di miseria attristerà gli occhi vostri”.

Con tutta evidenza, a voler buttare fuori dal civile consesso il maiale, erano i sedicenti nobili o ancor peggio, i poveri arricchiti. Gli altri, le persone comuni, il porco lo volevano così vicino da tenerlo, addirittura, in casa, o meglio in uno di quei bugigattoli dove “ a destra dell’uscio un asino sgretola il suo fieno, poi un focolare senza fuoco e senza pentola con un gatto soriano accoccolato sulla cenere, poi di fronte una finestra priva di vetri e d’impannata, con orciuoli e scodelle sul davanzale; poi a sinistra un fetido pagliericcio, che chiamasi letto, un truogo, e presso al truogo un porco, e razzolanti qua e colà galli, galline e pulcini che beccano ciò che cade dalla bocca dell’asino, e la crusca rimasta appiastricciata sul grifo del porco, e quando il bimbo che sta sul letto vagisce, il porco grugnisce, il gatto miagola, l’asino raglia, la gallina schiamazza”.

Ma il porco non si limitava, soltanto, a dormire sotto il letto. No, oltre agli agi della vita domestica, aveva assunto i vizi e le abitudini prodotte dall’urbanizzazione. Il maiale, infatti, usciva di casa, respirava la vita del paese ed appena gli era possibile scorrazzava “per le vie”, passeggiava “per le piazze”. Il porco calabrese era un porco di mondo, amava gli agi e non disdegnava la mondanità; entrava nei “caffè”, si fermava “innanzi alle bettole per raccogliere le bucce di lupini e di castagne che gli butta[va]no i bevitori, e quando bene gli pare [va] entra[va] in chiesa a sentire la predica”.

Sembrerà strano, direte voi, un suino in chiesa! Ma a tutto c’è una spiegazione. “I porci, infatti, ebbero il loro giudizio, si posero sotto il patrocinio di sant’Antonio”.

Una protezione che il maiale ripagava come poteva, infatti “appressandosi la stagione del porcocidio”, in giro per i paesi si vedevano “i frati condursi da uscio ad uscio lasciando cinque pentolini di creta alla donna calabrese” ed al “fraticello” che tornava “indi a 15 giorni” ne restituiva “uno solo, ma pieno di strutto”. 

Di rinunciare al porco, quindi, neppure a parlarne, soprattutto in un tempo in cui il “villano [era] si povero [ da dover] rimettere al tempo del porcocidio il desiderio di mangiarsi un po’ di carne fresca; e finché quel tempo non [veniva], oh con che tenerezza non guarda[va] il suo maialetto!”.

Un’attesa sì lunga e speranzosa da indurre la saggezza popolare a dire: “Amaru cui lu puorcu non s’ammaza ca li vida e li disijia li satizzi” (A chi porco non ha la sorte è ria; Ei vede la salsiccia e la desia).

Il porco, quindi, aveva a tavola un posto centrale, sia da morto che da vivo, non a caso il suo allevatore “ visto il figlio a mangiarsi un pugno di castagne, glielo tolse, e buttolle alla bestia”; perché, si sa, “Meggjiu mu crisci lu puorcu ca nu figghiu, puru l’ammazzi e t’unti lu mussu” ( Val meglio crescer porci, e non figliuoli, Ché uccidi il porco e 'l muso ti consoli”

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Trump e la dittatura dell'oligarchia

Sono tre le forme di governo storicamente più comuni. Senza scomodare i classici e praticando una semplificazione, le si può distinguere in: dittatura, oligarchia e democrazia. Fin dalle elementari  insegnano che la dittatura è il potere di un solo uomo, l’oligarchia il potere di una minoranza, la democrazia il potere di tutti.

Se ne deduce, quindi, che la democrazia dovrebbe rispecchiare la volontà della maggioranza.

Nelle democrazie moderne, le scelte si esprimono attraverso libere elezioni. Lo schema è piuttosto noto, ma di questi tempi molti sembrano averlo dimenticato. Il leader di un partito si candida e sottopone agli elettori un programma, ovvero un elenco di cose da fare.

I cittadini scelgono, quindi, chi propone ciò che vorrebbero fosse realizzato. Capita spesso, però, che dimentico del programma, il politico, una volta eletto, faccia tutt’altro. In Italia, di esempi del genere se ne potrebbero citare a iosa. Quanto la pratica sia diffusa lo dimostra il ricorso, sempre più frequente, al cosiddetto fact checking. L’analisi della corrispondenza tra ciò che si è detto e ciò che si è realizzato restituisce l’indice di affidabilità di un uomo politico.

Va da sé che chi non mantiene la parola data, in politica, come nella vita, dovrebbe veder scemare rapidamente la propria credibilità.

Tuttavia, può capitare esattamente l’opposto

È il caso, ad esempio, di Barack Obama la cui popolarità, a livello mediatico, è rimasta sempre immutata.

A suo beneficio, infatti, nonostante le tante promesse non mantenute, la fanfara del pensiero unico ha continuato ad intonare inni di giubilo.

All’estremo opposto, c’è invece Trump. Il neo presidente Usa è entrato stabilmente nel mirino dei cecchini del politicamente corretto. Ogniqualvolta firma un provvedimento, la consorteria radical chic lancia un peana.

Eppure, essere democratici dovrebbe voler dire rispettare il responso delle urne ed accettare, pur non condividendolo, il pensiero degli altri.

Ma, per i fautori della democrazia ad intermittenza, non sembra avere alcuna importanza il fatto che Trump abbia vinto le elezioni, non nel Medioevo, ma due mesi fa. Ancora meno importante, sembra essere la circostanza che stia mettendo in pratica le misure per cui è stato votato.

Ancorché in disaccordo con lui, gli epigoni della democrazia liberale dovrebbero rallegrarsi. Per costoro, un presidente che rispetta il sacro patto sottoscritto con gli elettori dovrebbe essere un esempio da citare.

Al contrario, si assiste alle quotidiane levate di scudi di un’oligarchia che, in nome della democrazia, vorrebbe imporre la dittatura della minoranza.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

L'età post ideologica e la dittatura del pensiero unico

L’ età post ideologica è un imbroglio. La pretesa fine dei grandi sistemi ideali che hanno caratterizzato il Novecento, è una colossale bufala.

Con la caduta del muro di Berlino, non sono finite le ideologie, solo una di esse: quella comunista.

A rimanere in piedi ed a prendere il sopravvento è stata, quindi, l’ideologia liberale, in assoluto la più vecchia. Come un novello Dorian Gray, il liberalismo è riuscito a cambiare volto ed a mascherare tutti i suoi anni.

A partire dagli anni Novanta, il modello liberale ha rotto gli argini. Si è prepotentemente insinuato nella vita delle persone ed ha plasmato l’epoca in cui viviamo. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Stipendi da fame, contrazione dello stato sociale e polarizzazione della ricchezza, sono solo alcune delle conseguenze prodotte da politiche economiche partorite da un’ideologia che pretende di far ordinare il mondo ad una mano invisibile. Una mano, talmente invisibile, che nessuno ne percepisce la presenza.

Ad arginare l’ascesa delle politiche liberali e liberiste, in questi anni, non c’è stato nessuno. Una situazione paradossale, ma non casuale.

La retorica post-ideologica e la spersonalizzazione dell’ideologia al potere, hanno creato, infatti, l’idea che all’attuale sistema non ci siano alternative.

Complice l’imponente apparato propagandistico di cui dispone, il potere è riuscito a perpetuare se stesso.

La subdola tirannia del pensiero unico è stata, ulteriormente, rafforzata con  lo smantellamento delle sovrastrutture e la creazione di una società liquida. Il mondo dominato dal relativismo e dall’assenza di valori condivisi è stato, infatti, funzionale alla nascita dell’homo oeconomicus, ovvero il migliore alleato dell’oligarchia dominate.

Passando per la post ideologia si è arrivati, quindi, alla post politica. La nostra epoca è  segnata, infatti, dall’idea che i partiti politici debbano essere dei semplici contenitori la cui funzione non è realizzare  programmi, ma conquistare e mantenere il potere.  Di post in post, si è arrivati, infine, alla post verità, con l’ovvio corollario che ciò che conta non è la verità, ma solo la sua percezione. L’importante, beninteso, è che sia espressa in un post, ovvero nel modo più sicuro per mortificare l’intelligenza delle persone.

Articolo pubblicato su: mirkotassone.it

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Dipendenti pubblici imboscati, un rimedio ci sarebbe

Sembra abbiano letto e metabolizzato “Il diritto alla pigrizia” di Paul Lafargue.  I dipendenti pubblici, oggetto di un lungo articolo pubblicato ieri da Marco Ruffolo su Repubblica, sembrano aver preso alla lettera il saggio scritto dal genero di Marx.

Conoscono e sfruttano tutte le pieghe che la legge gli offre pur di sfuggire ai loro doveri d’ufficio. Chiamarli fannulloni è riduttivo. Un fannullone per sua natura non fa nulla, si limita a poltrire. Loro, invece, faticano. Il loro lavoro preferito e cercare una scusa per non lavorare.

Nel variegato arcipelago italico degli imboscati figurano, ad esempio, i 400 “inidonei temporanei” di Palermo. Tra loro ci sono “autisti che non possono guidare, netturbini che non possono spazzare le strade, giardinieri che diventano improvvisamente portieri”.

La situazione non migliora risalendo la Penisola.

A Milano:  ” 4 dei 5 ispettori della società comunale Sogemi, che avrebbero dovuto controllare l’Ortomercato fra le tre di notte e le otto di mattina hanno rapidamente ottenuto l’inidoneità al lavoro notturno”.

I professionisti del sotterfugio non sono soli. A fargli compagnia ci sono i cultori della legge 104. La norma è nata per assicurare benefici ai lavoratori disabili, ai genitori, coniugi, parenti e affini entro il terzo grado di familiari con gravi disabilità.

Che il beneficio, in molti casi, sia diventato un privilegio lo certifica l’Inps. Secondo l’Ente, negli ultimi anni, il numero di chi ha fatto ricorso alla legge per disabilità propria o di un familiare è aumentato, rispettivamente, del 22,5 e del 34 per cento. Nel pubblico impiego i beneficiari della 104  e dei congedi straordinari sono 440 mila. Un dato balza subito agli occhi. Il 13,5 per cento di chi lavora per lo Stato usufruisce della legge. Nel settore privato la percentuale non supera il 3,3.

L’inchiesta svela, qualora ce ne fosse stato bisogno, l’esistenza di un esercito d’imboscati.  Un esercito che usa il pubblico impiego per strappare privilegi ammantati di diritti.

Va da sé che gli “imboscati” rappresentano un triplice danno. Per le casse dello Stato, per i cittadini e per i pubblici dipendenti onesti costretti a svolgere, anche, le mansioni dei furbetti.

Quanto il malcostume sia diffuso lo sanno tutti, a partire dalla politica che fa finta di non vedere. Banalmente si potrebbe dire che, per risolvere il problema, sarebbe sufficiente eliminare le cause che lo determinano. Le cause, in questo caso, sono da ricercare nei tanti certificati falsi rilasciati da medici compiacenti.

Per risolvere definitivamente il problema basterebbe, quindi, approvare una legge composta da un solo articolo.  “Il medico che, con dolo, attesti come autentici fatti o condizioni inesistenti o non rispondenti a verità è punito con la radiazione dal relativo albo professionale”.

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Gli hacker russi al tempo di Obama lo spione

La parte più difficile è uscire di scena. In teatro, come in politica, bisogna saper abbandonare il proscenio. Bisogna farlo in maniera discreta, senza che gli spettatori se ne accorgano. Chi lascia la ribalta non deve, mai, invadere lo spazio altrui. Una regola elementare che, in otto anni alla Casa Bianca, Barack Obama non ha ancora imparato.

Dopo due mandati costellati da disastri e fallimenti, il presidente Usa è rimasto, fino in fondo, coerente con il suo ruolo di guitto.

La sua scomposta ed imbarazzante uscita di scena è culminata, infatti, nell’espulsione di 35 diplomatici russi. A suo dire, presunti hacker che avrebbero violato la mail del Partito democratico. L’episodio, ancora una volta,  ha dato la misura della siderale distanza che lo separa da Putin.

Nella circostanza, il presidente russo sembra abbia voluto dire: ” non rispondo ad uno che sta facendo gli scatolini”.

Detto ciò, la vicenda rappresenta la cartina di tornasole dell’ipocrisia che ammorba gli epigoni del politicamente corretto.

La stizza di Obama, per quelli che, allo stato, sono solo presunti attacchi hacker, fa ridere i polli.

L’Obama che oggi s’indigna è, infatti, lo stesso che, da presidente, ha firmato il documento segreto “Direttiva politica presidenziale 20”.  Un documento con il quale ha autorizzato gli 007 ad usare strumenti cibernetici per identificare e attaccare obiettivi posti oltreoceano. Una decisione che ha permesso di trasformare la cyber intelligence statunitense, da difensiva, in ufficialmente offensiva.

A ciò si aggiungano il caso Snowden e il Datagate. Gli scandali scoppiati nel 2013 hanno permesso, infatti, di appurare la propensione di Obama ad origliare dietro qualunque porta.

Dai documenti, all’epoca, pubblicati dal Guardian, è emerso, infatti, che durante il mandato di Obama, gli Stati Uniti hanno controllato illegalmente le comunicazioni di tutto il mondo.

Obiettivo degli spioni Usa non sono stati soltanto gli avversari ed i nemici dichiarati. Nella rete allestita dalla Nsa (Agenzia per la sicurezza nazionale) sono finiti, anche, capi di Stato e di governo alleati. In particolare, l’agenzia avrebbe intercettato i telefoni personali di 35 leader politici stranieri, tra cui quello della cancelliera tedesca Angela Merkel.

Come, all’epoca, riportato dal Guardian e dal Washington Post, oggetto delle attenzioni dei servizi segreti americani furono, tra gli altri, ambasciate e consolati, le sedi della Nato, dell’Onu e dell’Ue, nonché l’allora segretario generale della Nazioni unite Ban Ki-moon.

Il fatto che proprio il presidente del Paese che ha allestito la più grande rete di spionaggio della storia pretenda ora d’interpretare la parte del campione della privacy, dà la misura di quanta ipocrisia permei l’azione degli anfitrioni del politicamente corretto.

Un’azione sostenuta da un sistema che teme solo le “post verità”, soprattutto quando svelano le menzogne.

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Il simbolismo dei re Magi e la misteriosa sepoltura in Italia

Nella tradizione cristiana gli ultimi ad arrivare a Betlemme per adorare Gesù Cristo furono i Magi.

Dal vangelo di Matteo si evince che essi “giunsero da Oriente” seguendo la “stella” che avevano visto sorgere e che li precedeva. Quando si fermò sopra il luogo in cui si trovava il bambino capirono di aver trovato il re dei giudei di cui si parlava nelle profezie. Al suo cospetto si prostrarono e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.

Tra i tanti enigmi che avvolgono i Magi, il primo riguarda il loro numero.

QUANTI ERANO?

Per la tradizione cristiana sono tre. Tuttavia, Matteo non ha mai scritto quanti fossero.

L'episodio dei Magi è ripreso in vari vangeli apocrifi dell'infanzia. In uno di essi, quello armeno, appaiono per la prima volta i nomi ed il numero. “Subito un angelo del Signore - narra il Vangelo armeno -si recò nel paese dei Persiani per avvertire i Re Magi che andassero ad adorare il neonato. E costoro, guidati da una stella per nove mesi, giunsero a destinazione nel momento in cui la vergine diventava madre. In quel tempo il regno dei Persiani dominava per la sua potenza e le sue conquiste su tutti i re che esistevano nei paesi d'Oriente, e quelli che erano i Re Magi erano tre fratelli: il primo, Melkon, regnava sui Persiani, il secondo, Balthasar, regnava sugli Indiani, e il terzo, Gaspar, possedeva il paese degli Arabi”.

CHI ERANO?

Nel Calendario,  Alfredo Cattabiani scrive: “Mago deriva da mag che significa letteralmente dono ed esprime un particolare valore religioso di cui parlano le Gâthâ dell'Avesta, il complesso dei libri sacri dello zoroastrismo. Lo stato di mag separa ciò che è spirituale da ciò che è corporeo, porta in diretto contatto con le energie divine; sicché il mago è «colui che partecipa del mag, acquisisce un potere magico per mezzo del quale può ottenere un'illuminazione, una conoscenza fuori dell'ordinario, una visione e percezione che non sono mediate né trasmesse dagli organi fisici né dai sensi»”.

Per  Erodoto erano, invece, i membri  di una delle sei tribù in cui era suddiviso uno dei popoli che anticamente abitava nella regione che corrisponde all’odierno Iran, i Medi. Quando i persiani conquistarono il regno dei Medi, il termine cominciò a essere usato per indicare semplicemente i sacerdoti.

Infine, Mario Bussagli, li definisce  “una specie di superclero, i depositari di un supremo sapere che, in definitiva, poteva controllare la corretta esecuzione di un rito e permetteva di avere col Sacro un contatto assai diverso da quello concesso a un normale sacerdote [...] Sicuramente essi ebbero una preparazione astrologica e astronomica di origine caldea, ma ampliata e approfondita [...] Conoscevano l'interpretazione dei sogni [...] Potremmo dire che i Magi, per predisposizione naturale, per preparazione, per tradizione, erano in grado di entrare in sintonia con le energie e le vibrazioni dell'universo, cogliendo i segreti della materia che essi consideravano animata”.

LA SIMBOLOGIA

 Nella leggenda sui re Magi riferita nel “Milione”, Marco Polo, scrive: “arrivati al luogo dove il bambino era nato da poco, il più giovane dei tre re andò a vederlo da solo: e lo trovò che somigliava a lui stesso e pareva avesse la sua età e la sua fisionomia. Uscì stupefatto. Dopo di lui entrò quello di media età, e il bambino gli parve com'era parso all'altro, della sua età e della sua fisionomia. Anche lui uscì fuori stupefatto. Poi entrò il terzo che era di età maggiore, e gli accadde la stessa cosa che agli altri due. Uscì fuori tutto pensoso. Quando si ritrovarono insieme, i tre si raccontarono quello che avevano visto e, dopo essersi molto stupiti, decisero di andarci tutti insieme. Eccoli ora tutti insieme davanti al bambino, e lo trovarono dell'aspetto e dell'età che egli aveva, essendo nato da tredici giorni”.

Si tratta di una leggenda che rappresenta un'allegoria del mistero di Cristo che si è mostrato come giovane al giovane, come uomo maturo al maturo e come vecchio al vecchio, ovvero come colui che è passato, presente e futuro, ovvero Eterno. Inoltre, manifestandosi ai Magi come un neonato, Cristo ha voluto mostrare come la somma delle tre età dell'uomo non dà come esito finale la morte, bensì la vita nascente.

I DONI

Nella ricca simbologia racchiusa dall’episodio dei Magi, non può mancare un riferimento ai doni offerti al Salvatore. Per gli autori cristiani, l’oro simboleggia l'essenza di Cristo re dell'universo, mentre l'incenso quella di Dio. Non c’è concordanze di vedute, invece, sul significato della mirra. Per gli autori occidentali, la resina, che si ricava dalla corteccia di alcune piante che crescono in Arabia e Africa, prefigura la passione di Cristo. La sostanza, che gli antichi egizi usavano per le imbalsamazioni, secondo la tradizione, venne usata per ungere il corpo di Gesù prima della sepoltura.

Per le comunità cristiane d'Oriente la mirra rappresenta, invece, un attributo del Cristo come Sapiente medico o taumaturgo. Nel racconto sui Magi, Marco Polo dice a questo proposito: “Raccontano quelli del luogo che tanto tempo fa tre re della loro regione andarono a visitare un profeta nato da poco; e portarono con loro tre offerte, oro, incenso e mirra, per poter riconoscere se quel profeta era Dio o re o sapiente. Pensavano: se prende oro è un re, se prende incenso è un Dio, se prende mirra è un sapiente... Lo adorarono e gli offrirono oro, incenso e mirra, e il bambino prese tutte e tre le offerte”.

LA SEPOLTURA DEI MAGI

 Non meno leggendaria è la sorte toccata ai Magi dopo la morte.  Secondo una cronaca del IV secolo, nel 344, Sant'Eustorgio fece arrivare “le sacre reliquie" a Milano. Fino ad allora, infatti, erano state custodite nella basilica di Santa Sofia a Costantinopoli, dover erano state portate da sant'Elena che le aveva ritrovarte durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa.

La leggenda vuole che essendo stati trattati con balsami e spezie, i corpi dei Magi erano intatti a tal punto da permettere di dedurre le loro età. Il primo sembrava avere 15 anni, il secondo 30 e il terzo 60 anni.

I resti mortali dei Magi rimasero nella città ambrosiana fino al 1164 quando, Federico Barbarossa, li fece trafugare a Colonia dove venne eretto il Duomo in cui sono tuttora custoditi in un prezioso reliquiario.

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